Pubblicità: arte o scienza?
MEZZO PER FARSI NOTARE
O PER VEDERE (E MOSTRARE) LE COSE
IN MODO NUOVO?
“Noi facciamo comunicati pubblicitari, non arte”.
Quando iniziai la mia carriera, il dibattito se la pubblicità fosse (o dovesse essere considerata) arte era molto intenso. Lo è oggi in misura ridotta, ma rimane una questione interessante e controversa, a cui può essere data una migliore risposta se guardiamo arte e pubblicità dal punto di vista della “interpretazione” e dello “scopo”.
L’interpretazione
L’arte non fornisce alla gente una interpretazione prevalente: un quadro può significare cose diverse per gente diversa; un discorso o un brano di prosa possono suscitare emozioni differenti in audience differenti.
Nella pubblicità, invece, il fatto di fornire al pubblico la libertà di creare la propria interpretazione non fa parte degli obiettivi; ci si aspetta che l’audience viva solo le emozioni che era stato previsto che la pubblicità suscitasse.
Lo scopo
Anche lo scopo è un elemento differenziante: l’arte è creata perché commissionata o con l’intenzione di venderla. La pubblicità, invece, è sempre una forma “pagata”, con una chiara identificazione dei suoi obiettivi. Nessuno realizza pubblicità senza fini specifici; nessuno la crea solo perché la società meriti di vederla.
Su questa base la conclusione, che io condivido, è che la pubblicità non sia un’arte.
Non arte, ma “arte applicata”
La pubblicità può usare creativi metodi artistici per influenzare il comportamento dei consumatori e per questo può essere ritenuta “un’arte applicata”. E richiede creatività e capacità di costruire buoni messaggi, il che rende la produzione di pubblicità un’abilità di tutto rispetto.
Ma con l’avvento del web molte di queste distinzioni sono state dimenticate. Pubblicità e arte spesso si confondono nello sforzo di realizzare un mandato, quello di “essere notati”!
I social media richiedono che la pubblicità “funzioni” come arte o come intrattenimento così da essere largamente condivisa e diventare “virale”. Se ci fermiamo un attimo a cercare esempi di pubblicità che possa definirsi “art-like”, ne troviamo molti. Possono piacerci oppure no, ma certamente ci portano in un mondo diverso.
Creatività e misurabilità
Va osservato, però, che il cambiamento legato all’entrata della pubblicità nell’intrattenimento è avvenuto già da qualche decennio. Durante tutto questo tempo (e immaginiamo che sarà così anche nel futuro), la pubblicità ha mantenuto il suo obiettivo finale: la vendita. Però è cresciuto il rischio che un certo numero di copywriter, e soprattutto di art director (in particolare quelli che si atteggiano a grandi creativi), siano più interessati a vendere le loro abilità piuttosto che i prodotti dei loro clienti. I creativi pubblicitari non sono e non vogliono essere dei venditori, ma colgono ogni occasione per mettere in luce il loro cosiddetto talento nella ricerca disperata di catturare l’attenzione dell’audience e con la giustificazione di cercare l’intrattenimento.
Forse si sono dimenticati (o non conoscono) i buoni insegnamenti dei grandi “inventori” della pubblicità, come David Ogilvy, che ad esempio diceva: “Un buon annuncio pubblicitario è quello che fa vendere il prodotto senza attirare l'attenzione su di sé”.
Con l’utilizzo sempre più complesso dei media da parte dei consumatori, la pubblicità è diventata anche più misurabile. La sfida per gli investitori di pubblicità oggi è diventata quella di non lasciarsi irretire dalle metriche come i click e le page view, che non necessariamente danno conto del successo del business, ma di continuare a farsi guidare dai risultati di vendita.
Ma anche le aziende hanno le loro pecche
C’è un aspetto su cui voglio fare una riflessione, un aspetto che sta a mio avviso avendo una influenza molto critica sulla relazione fra le agenzie incaricate di approntare le comunicazioni pubblicitarie e i responsabili aziendali della pubblicità.
Consentitemi di fare una piccola digressione, che mi riporta agli inizi della mia carriera. Allora era diffusa, almeno nelle aziende più orientate al marketing una filosofia di brand management, che richiedeva che prima che si facesse alcunché si dovesse decidere che cosa si stava cercando di fare. Detto in altri termini, ci si chiedeva di decidere gli obiettivi prima di avviare qualunque azione.
Si citava, per sostenere l’imbarazzo di un approccio diverso, il dialogo che Lewis Carroll, autore del libro che da 150 anni è sempre molto letto (Alice nel paese delle meraviglie), fa sostenere alla sua protagonista.
Un giorno Alice arrivò a un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull’albero. “Che strada devo prendere?” chiese.
La risposta fu una domanda:
“Dove vuoi andare?”
“Non lo so”, rispose Alice.
“Allora”, disse lo Stregatto, “non ha importanza”.
Questo dialogo era l’opposto di quella filosofia, che insisteva su una chiara distinzione fra strategia ed esecuzione. La strategia è la definizione degli obiettivi fondamentali. L’esecuzione è la pianificazione – il come – necessaria per conseguire quegli obiettivi.
Bene, la strategia di marketing era il documento fondamentale per tutta la pianificazione di un brand. L’attività di esecuzione doveva essere sempre conforme alle decisioni indicate nella strategia di marketing; qualsiasi attività di esecuzione (anche se eccellente) che non fosse conforme agli obiettivi strategici era definita “fuori strategia” e non adatta per il brand.
A condizione che non si sbagliasse nell’interpretare gli obiettivi e nel prendere le decisioni corrette, si riteneva che il brand avesse buone probabilità di avere successo nel lungo termine.
Ne discendeva che lo sviluppo di una strategia di marketing per un brand era il risultato di un esercizio molto approfondito e ponderato. Definiva chiaramente che cosa il prodotto doveva essere in grado di fare e il mercato in cui il brand avrebbe operato; inoltre specificava gli obiettivi del business che l’azienda aveva stabilito.
Questo documento includeva anche il copy, cioè le caratteristiche attese per la sua pubblicità: per esempio quale promessa la pubblicità doveva fare ed il tipo di immagine che doveva creare.
Il briefing, questo sconosciuto!
Adesso mi sembra che questo approccio sia in gran parte disatteso dalle aziende (spesso con il pretesto che non si deve limitare la creatività se vogliamo un’opera d’arte); i responsabili aziendali della pubblicità dicono poco o niente alle agenzie, cioè azzerano quel “brief” che, riassumendo il mandato per il lavoro richiesto, dava alle agenzie stesse una guida spesso importante per creare una pubblicità – creativa! – che vende.
Il mio timore è che si stia fortemente indebolendo quel solo processo che può consentire alla pubblicità e al copywriting di vendere il prodotto o il servizio del cliente a quanti più consumatori è possibile, assicurando così il successo del business. Il processo, cioè, che porta a una comunicazione in cui sia contenuta una promessa di soluzione dei problemi del consumatore semplice, realistica, convincente e possibilmente unica, la quale faciliti la vendita. Il processo che vede una collaborazione coordinata fra l’azienda e l’agenzia basata su una concordata definizione di ciò che si può e si deve dire o non dire.
Anche se ciò può limitare o ridurre quella capacità del messaggio a farsi notare e ricordare che assicura grandi numeri di “like”.
LA PUBBLICITÀ SECONDO UN SUO PAPÀ: BILL BERNBACH
“Secondo un vecchio adagio – non è mio ma lo sottoscrivo pienamente – si scrive meglio quando si ha qualcosa su cui scrivere. Se mi è concesso dare un consiglio, bisogna conoscere bene a fondo il prodotto prima di iniziare a lavorare. La tua bravura, la tua capacità di provocazione, d’immaginazione e d’inventiva devono scaturire dalla conoscenza del prodotto. A parer mio, la cosa peggiore che succede oggi è che si fanno molti giochi di prestigio con la grafica, e non è difficile per nessuno trovare delle idee. La cosa importante è riconoscere un’idea quando è buona. Bisogna avere inventiva, immaginazione, ma c’è anche bisogno di disciplina. Tutto ciò che viene scritto, tutto ciò che si trova nella pagina, ogni parola, ogni simbolo grafico, ogni segno, deve far sì che il messaggio da trasmettere venga rafforzato. Chi lavora in pubblicità senza ammettere che lo scopo finale è la vendita di un certo prodotto è un impostore. Inoltre, bisogna essere il più possibile semplici, rapidi e penetranti; e bisogna sempre partire dalla conoscenza del prodotto relazionando questa conoscenza con i bisogni dei consumatori.”
(intervista ad Advertising Age, 1965)
“La creatività è forse una forma di espressione oscura ed esoterica? Non per noi. È semplicemente lo strumento più funzionale che un uomo d’affari possa utilizzare.
Cominciamo dal principio. Dovete sprofondarci dentro. Farne indigestione. Arrivare fino al suo nocciolo interno. E in ogni caso, se non siete stati capaci di condensare tutto quello che volete dire al pubblico in un unico proposito, in un unico tema, non potrete essere creativi. […] I veri creativi hanno addestrato la propria immaginazione. L’hanno disciplinata in modo che ogni pensiero, ogni idea, ogni parola che scrivono, ogni linea che tracciano, ogni luce e ombra nelle foto che scattano, in modo che tutto insomma sia finalizzato a rendere più vivido, più credibile, più convincente il tema o la virtù del prodotto che hanno deciso di comunicare. È chiaro che la finalità di vendita è importante. E che ogni cosa è fatta per stimolarla. Ma cosa c’è di così tanto rivoluzionario in questo atteggiamento? Non l’hanno certo inventato i pubblicitari. Ognuno, in qualunque campo – l’avvocato, lo scienziato, lo storico, lo scrittore… sì, anche il pittore e il poeta –, chiunque ha come ultima finalità la vendita della sua opera e cerca di convincerti ad acquistarla. I ‘giganti’ in ogni campo però sanno che una cosa è voler vendere, un’altra è riuscire a farlo. […] È proprio allora che la creatività è necessaria. È proprio qui che servono non una parola o un’immagine banale, ma l’intervento di creativi dotati d’immaginazione e originalità, in grado di prendere quello stesso concetto che è l’argomentazione di vendita e usare la magia del loro talento artistico per fare in modo che il pubblico lo veda e lo ricordi! Non farlo è uno spreco, oltre che un’inefficienza. […] Io invito tutti gli ambiti del business a dedicare lo stesso sforzo e riflessione che mettono negli aspetti organizzativi più tradizionali anche nello sviluppo dell’arte del comunicare con efficacia.
La responsabilità principale dei veri creativi non è solo quella di esercitare la propria libertà creativa, ma di saper distinguere un buon lavoro creativo dalle acrobazie puramente pretenziose. Il terribile incremento della pressione politica e sociale, la violenza con cui dobbiamo confrontarci di continuo, la spietata competizione tra i marchi, tutto questo fa sì che sempre di più sia necessario ideare con talento artistico le immagini e le parole per colpire e coinvolgere il pubblico. Ormai la gente è talmente esposta a una pioggia di banalità, ai tentativi presuntuosi e finti di catturarne l’attenzione, che guarda senza vedere, ascolta senza sentire e, cosa peggiore, senza provare nulla. Non c’è mai stata una sfida più grande per i talenti creativi. E per coloro che sapranno cogliere la sfida, e che grazie alla magia del loro talento riusciranno a far vedere, sentire, e far provare emozioni al pubblico, la ricompensa non sarà mai stata così grande. Perché voi siete come l’assicurazione che un marchio stipula su tutto ciò che vuole dire alla gente. Perché solo voi, lavorando in modo onesto e creativo, potete portare in vita quelle che sono solo fredde informazioni e renderle memorabili a tutti coloro che le vedranno. Solo voi potete provare al mondo che il buon gusto, la buona grafica e la buona scrittura fanno buona la pubblicità.”
(discorso al meeting dell’American Association of Advertising Agencies – nel 1961!)