LA PIANIFICAZIONE: UN TOTEM DA VENERARE?
O UNO STRUMENTO VITALE PER LO SVILUPPO AZIENDALE? COME SI STABILISCONO GLI OBIETTIVI? QUALI PERSONE SI COINVOLGONO?
Un tema molto interessante per tutti coloro che hanno la responsabilità di un centro di costo o di profitto e quindi anche per coloro che guidano un gruppo è quello della pianificazione, sia essa di natura strategica o tattica.
La pianificazione è sostanzialmente un metodo per conseguire degli obiettivi (o “gol”). Per stabilireun obiettivo, non si dovrebbe mai, in linea teorica, partire dalla posizione corrente o dalla storia passata. Si dovrebbe invece partire da ciò che si vuole conseguire, l’obiettivo stesso, e poi cercare i mezzi per raggiungerlo e pianificare gli eventi che rendono quegli eventi disponibili. Occorre lavorare “a ritroso” fino a ritornare sulla posizione corrente.
Questo è l’opposto di quanto i manager normalmente fanno quando vogliono fissare un “gol”; invece stabiliscono quello che faranno in futuro servendosi di una proiezione di ciò che è avvenuto in passato. Questo approccio si riduce all’affermazione: “Vogliamo il 10% in più dello scorso anno”. Purtroppo finisce il più delle volte col dare un risultato mediocre.
Il processo corretto dovrebbe partire dagli obiettivi generali e dalla strategia, definiti dal vertice aziendale. Poi gli altri livelli (quello intermedio e quelli sottostanti) dovrebbero stabilire la tattica necessaria per raggiungere i loro goal specifici: i loro goal diventano l’individuazione delle azioni con cui raggiungere l’obiettivo dell’organizzazione. I gol dovrebbero essere al tempo stesso qualitativi e quantitativi. Ogni gol spesso è dipendente da più di una strategia.
Un gol deve:
• includere la definizione di piani di riserva (che cosa facciamo se questo non avviene?);
• quantificare le risorse necessarie (umane e finanziarie);
• dare delle date.
Un esempio pratico
Supponiamo, per esempio, che l’indicazione del vertice sia quella di aumentare la forza vendite per incrementare i ricavi e i risultati economici aziendali. Il direttore vendite stabilirà, in base al fatturato desiderato, che l’obiettivo di reclutamento sia, per quest’anno, 245 persone. Ha stabilito questo gol non sulla base di quanti neo-inseriti è stato capace di generare l’anno scorso o gli anni precedenti, ma sulla base delle necessità del futuro. Può darsi che l’anno prima sia riuscito a reclutare soltanto 95 persone, ma le esigenze del business ora gli dicono: “Recluta 245 persone”.
La prima cosa che deve fare è riflettere “strategicamente” su questa richiesta. Forse gli occorrono molti manager che si dedichino al reclutamento. Forse deve concentrarsi su come dar loro una forte motivazione a reclutare, parlando della necessità che l’azienda ha di aumentare il suo organico di vendita, di come loro possono essere d’aiuto al progetto e lui di aiuto a loro.
Dopo di che può sviluppare la sua pianificazione “tattica”. Come può ottenere un numero elevato di nominativi di candidati adatti? E quanti intervistatori sono necessari? I suoi manager possono non essere sufficienti per far fronte alle esigenze di questo progetto. Può chiedere aiuto a un altro reparto? L’ideale è che se la sbrighi lui senza coinvolgere il suo capo con i dettagli di un piano di cui lui soltanto è al tempo stesso protagonista e responsabile.
In ogni caso deve preparare più strategie di quante potrà utilizzarne. Deve stabilire priorità, deve valutare la qualità delle strategie dei suoi collaboratori. Deve legare i risultati che essi conseguiranno alla loro remunerazione. Una strategia è semplicemente la pianificazione di come il suo reparto andrà dal punto A al punto B, e ci sono molti modi di farlo.
Il processo di pianificazione strategica
Ma che cosa è un buon piano strategico? Forse un buon piano strategico in realtà non esiste. Ciò che esiste è un buon processo di pianificazione strategica. E questo in che cosa consiste?
Possiamo dire che un buon processo di pianificazione strategica ha le seguenti caratteristiche.
1. Vede il coinvolgimento di tutti ed è quindi sviluppato “bottom-up”. Il coinvolgimentoporta con sé un comportamento responsabile. Quando si verifica una deviazione, l’interesse di una persona, che è stata coinvolta nella stesura del piano, è di trovare il perché e quindi di intraprendere un’azione correttiva. L’abilità di eseguirlo deve necessariamente risiedere nella prima linea. Ovviamente, a mano a mano che il processo si sviluppa, esso comporterà un dibattito fra i manager dei livelli superiori e qualche “sano” compromesso. Ma il piano non dovrebbe mai trascurare e perdere di vista la prima linea, dove l’esecuzione si realizza. Le persone non resistono ai cambiamenti, resistono soltanto al fatto di “essere cambiate”. Coinvolgiamo le persone, non per far conoscere che cosa qualcun altro ha preparato per loro, ma per avere il loro punto di vista su come risolvere un problema. Chiamiamole a pianificare la soluzione.
2. È continuamente “aggiornato e rinnovato”, e ciò forza tutti a porsi delle nuove domande; tutto cambia continuamente, in particolare le condizioni di mercato e i vincoli esterni. Se non ci si guarda attorno continuamente, senza che ce ne accorgiamo il piano diventa “superato”. Inoltre il suo contenuto e formato dovrebbe essere sostanzialmente modificato ogni anno. La maggior parte dei piani diventa un fatto burocratico, mentre il loro scopo è soltanto quello di sollecitare pensieri e riflessioni. Solo cambiamenti del processo che richiedono nuove domande possono assicurare vitalità e utilità.
3. Non è lasciato ai pianificatori di staff. Se sono loro a gestirlo, le deviazioni risultano in un aumentato controllo delle attività, le procedure diventano sempre più strette, il sistema e non le necessità del business finiscono con il controllare i comportamenti degli individui.
4. Richiede molto tempo di approfondimento ma anche dibattiti vigorosi. E questo avviene solo se a prepararlo sono l persone che devono fare il lavoro, gli “utilizzatori del piano”. Costoro devono sapere che il controllo resterà nelle loro mani e che loro sono il punto in cui le decisioni saranno prese. E ciò li renderà particolarmente coinvolti e responsabili. Per quanto poi riguarda il documento in sé:
5. Deve essere succinto. Il piano non dovrebbe andare oltre le dieci pagine e forse i due terzi di esso dovrebbe porre enfasi sullo sviluppo di abilità strategiche tenendo conto della visione generale dell’azienda e delle più significative forze esterne che la determinano. Piani di duecento pagine non sono in grado di farlo.
6. Deve essere un documento “vivo”. Esagerando, dovrebbe essere considerato “obsoleto” nel momento in cui viene stampato, cioè non dovrebbe mai diventare un’icona. A quel punto potrebbe anche essere distrutto, se non in pratica almeno in spirito. Il processo del suo sviluppo corrisponde quasi al 100% del suo valore e forse a più del 100%. Il fatto di seguirlo pedissequamente nonostante il cambiamento delle condizioni (cosa che spesso si fa) è controproducente.
7. Flessibilità è la sua parola chiave. Concetti corretti e un dibattito sul futuro, marcati da domande sempre nuove, alimentano una flessibilità di pensieri e di azione indispensabile per assicurarne la validità. Inoltre la flessibilità porta con sé capacità strategiche e l’abitudine all’esecuzione veloce. Le aziende di successo sono una raccolta di abilità sempre pronte a sfruttare anche brevi anomalie di mercato. Ogni utile processo di pianificazione deve aiutare a creare una grande flessibilità per cercare e sfruttare opportunità, piuttosto che enfatizzare approcci statici inadatti per avere successo in un mercato in continuo cambiamento.
Ricordiamoci che ogni business unit e ogni funzione può trarre grandi vantaggi dall’avere un piano strategico di questa natura, il cui sviluppo abbia coinvolto tutti e sia condiviso da tutti dopo essere stato completato.