Strategie e tecniche


Simona Toni Simona Toni

Dal volume N° 75

Di cosa parliamo quando parliamo di noi

 

Se parliamo di marketing per professionisti e imprenditori, probabilmente la prima cosa che ci viene in mente è la parola personal branding.
Questa locuzione, mutuata dal marketing di prodotto, indica un insieme di attività di marketing e comunicazione, per cui un individuo viene comunicato come se fosse un brand e commercializzato come un prodotto.

PREMESSA: DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI NOI?
In tanti parlano di personal branding come strategia di marketing per “vendere” sé stessi e la propria professionalità. Ma cos’è realmente il personal branding?
Tutti noi, ogni giorno, in modo spesso inconsapevole, facciamo attività di personal branding. Quando entriamo in riunione e salutiamo in un certo modo, quando conosciamo una nuova persona a un evento e iniziamo la conversazione con una battuta, quando ci presentiamo in ufficio con un outfit peculiare. Ognuna di queste sono occasioni di personal branding.
E se il termine è di oggi, il concetto è di sempre: ricordiamo la massima di Oscar Wilde: “Non c'è mai una seconda occasione per fare una buona prima impressione”!


TEMA: COME PARLARE QUANDO PARLIAMO DI NOI?
In una sua iconica frase, Jeff Bezos, ex CEO di Amazon, definisce il personal brand come “quello che le persone dicono di te, quando tu non sei nella stanza”.
Da questa definizione il personal branding sembra un meccanismo passivo di percezione da parte degli altri, che il professionista subisce e su cui non può agire.
Io sento più vicina una definizione che vede il personal branding come un insieme di attività di comunicazione della propria identità professionale a un pubblico interessato.
In questo modo il personal branding diventa un processo di comprensione e valorizzazione, attraverso la comunicazione, dei fattori distintivi della persona, al fine di costruire relazioni professionali di qualità.

IL PERSONAL BRANDING IN TRE PASSAGGI
Da questa definizione emergono in modo chiaro quali siano i passi di un processo davvero ad personam di personal branding.
1.    Il primo passo è la conoscenza di sé stessi, dei propri punti di forza e di miglioramento, dei valori guida, dei propri obiettivi e delle risorse che abbiamo a disposizione per raggiungerli.
2.    Il secondo è la selezione accurata degli aspetti della propria identità che sono narrabili, ovvero in grado di generare valore per gli altri e, per luce riflessa, per sé stessi.
3.    Il terzo passo è l’attività concreta del racconto di sé attraverso molteplici canali, da quelli tradizionali agli strumenti digitali.

PERCHÉ CHI HA PIÙ DA DIRE, SE NE STA MUTO?
Dopo cinque anni di attività col mio team abbiamo individuato le quattro aree di resistenza – in parte oggettive, in parte emotive – da parte dei professionisti e imprenditori verso un percorso di personal branding, soprattutto se online.

1.    Mancanza di tempo
La maggior parte dei professionisti e imprenditori è così concentrata a coltivare il proprio orto che si dimentica di mostrare cosa sta coltivando e come lo sta facendo. Le attività di comunicazione di sé vengono spesso relegate a quei compiti che “farò appena avrò un po’ di tempo”, e che si è resistenti (o diffidenti) a delegare.
Per le cose che non riteniamo realmente importanti per noi, non troveremo mai il tempo: è una regola universale – un po’ miope, un po’ masochista.

2.    Pregiudizi sulle attività di autopromozione
Quando un imprenditore o un professionista si ritrova a dover fare attività di personal branding, soprattutto online, è assalito spesso da una serie di resistenze verso le attività di autopromozione.
“Sono un professionista, non un influencer”, “Non voglio iniziare a vendermi”, “Se comincio a comunicarmi assiduamente, le persone penseranno che non lavoro più”, “Agli altri non interessa sapere cosa faccio”, “Se inizio a utilizzare i social per comunicarmi, sembrerò una persona disperata in cerca di nuovi clienti”.
Pensieri in contrasto con il desiderio e il diritto di veder riconosciuto il proprio valore – oltre che di crescere “oltre il giardino”.

3.    Paura del giudizio altrui
Questo timore consiste nell’idea che l’attività eseguita possa non essere all’altezza delle aspettative, con conseguente giudizio negativo da parte degli altri. È una paura spesso paralizzante.
Una delle frasi che più spesso ho sentito è: “ma io non ho niente di interessante da dire”. Quello che rispondo è: “se un’idea ti appassiona, ti piace, ti muove dentro, non puoi non comunicarla agli altri, è quasi un tuo dovere morale condividerla, affinché quel pensiero possa essere utile e di aiuto a più persone possibili”.
Di fronte alla missione di aiuto della collettività, la nostra paura individuale è un così piccolo aspetto!

4.    Poca conoscenza degli strumenti di comunicazione
L’ignoranza spesso genera paura. Quando non conosciamo qualcosa, in modo automatico cerchiamo di tenerla lontana dalla nostra vita, perché percepita come minaccia per il nostro “status quo”. Il nostro cervello è infatti molto pigro, non ama le novità.
Ecco perché i social network e in generale tutti gli strumenti di comunicazione digitali sono spesso visti dai professionisti e imprenditori come minacce per il proprio business, anziché come un’opportunità.

CHI PARLA, PERCHÉ LO FA?
Nonostante queste resistenze, a spingere di solito un professionista o un imprenditore verso un percorso di personal branding sono due motivazioni esplicite:
1.    acquisire nuovi clienti;
2.    essere riconosciuto come esperto di un determinato settore.

La prima motivazione è un’illusione. Il personal branding non è finalizzato ad acquisire nuovi clienti, ma a sviluppare un progetto professionale, in modo da far sapere agli altri chi siamo e sulla base di questo costruire relazioni di valore. Sarà poi la percezione che gli altri hanno di noi a direzionare la loro scelta verso un servizio o prodotto offerto.

La seconda motivazione si collega al concetto di percezione che gli altri hanno di noi, ovvero la reputazione. Se il professionista o imprenditore riesce a dare un’immagine positiva di sé, anche altre sue caratteristiche, come le sue competenze, verranno valutate positivamente dagli altri. Questo è quello che in psicologia viene definito “effetto alone”: sfruttiamolo!

IL SENSO DI QUESTA STORIA
Oggi possiamo dire di essere in una “economia della reputazione”. Per questo motivo è ormai necessario intraprendere attività di personal branding, nonostante le paure e l’impegno richiesto.

Nell’era della reputazione siamo infatti definiti da:
1.    il nostro messaggio, ovvero ciò che siamo e ciò che creiamo;
2.    le parole che decidiamo di usare per comunicarlo.

Secondo il principio di simpatia di Cialdini, gli individui sono più propensi ad accettare proposte dalle persone in cui si rispecchiano, di cui si fidano, specialmente se vengono associate a un messaggio positivo. Quindi, quanto più il professionista racconta di sé, tanto più riuscirà a instaurare e mantenere relazioni professionali.

Il racconto di noi stessi quindi nascerà e si svilupperà secondo una trama strategica, perché:

1.    i clienti scelgono prima di tutto la persona, nelle sue caratteristiche peculiari, idee e valori, dietro al professionista;
2.    la decisione spesso non si basa sulle reali o percepite competenze e conoscenze del professionista, ma sul tipo di relazione che è stata instaurata.

LESSON LEARNED

Nell’attuale sistema economico quello che conta non è cosa facciamo, ma come e perché lo facciamo e soprattutto come lo valorizziamo, comunicandolo agli altri.

Oggi per un professionista o imprenditore fare personal branding è un’attività imprescindibile per poter orientare il mercato verso la scelta dei propri prodotti o servizi.

Fare personal branding significa capire qual è la propria Unique Value Proposition (proposta unica di valore) che fa la differenza per il mercato di riferimento. Una volta individuata, dobbiamo comunicarla nel migliore dei modi, per poter aiutare, attraverso il nostro messaggio, più persone possibili.