Come "liquidare" la paura del futuro
DALL’INCERTEZZA ALLA FELICITÀ:
QUATTRO SAGGI DI ZYGMUNT BAUMAN,
SOTTO LE 150 PAGINE,
PER NON TEMERE CIÒ CHE VERRÀ
“Trascorriamo otto ore al giorno davanti a uno schermo e non ad altri esseri umani”. “C’è il progresso economico, che significa che il modo in cui ti sei guadagnato da vivere fino a un certo momento improvvisamente non regge più la competizione”. “Diventi superfluo”.
Zygmunt Bauman (1925-2017), forse il sociologo più letto anche da chi non si interessa nello specifico di sociologia, non ha mai preteso di avere la “ricetta facile e miracolosa” ai problemi dell’uomo moderno. Polacco, di origini ebraiche, voce di tutte le crisi più grandi del Novecento, è sempre stato uno studioso con la testa sulla spalle, un osservatore imparziale, l’antitesi del guru, anche quando nelle interviste gli veniva chiesto: ma quindi, signor Bauman, cosa dobbiamo fare?
“L’incertezza è l’unica certezza” diceva – con una definizione, quella della “modernità o società liquida”, diventata iconica al pari di “il mezzo è il messaggio” di un altro sociologo, Marshall McLuhan.
E potevi sbatterci la testa, ma un’altra risposta non te l’avrebbe data, perché un’altra risposta non c’è, almeno per noi che viviamo l’oggi.
Ma ci sono degli strumenti.
Soprattutto nell’ultimi anni dei suoi studi, Bauman ha voluto individuare delle linee guida per chi affronta la “liquidità”. Ecco il senso di questo articolo: un percorso in quattro saggi meno conosciuti ma non meno validi del sociologo, veloci da leggere perché tutti al di sotto delle 150 pagine. E il percorso avrà una direzione: dall’incertezza (della paura) nel primo agli strumenti del secondo e del terzo saggio (per costruirsi un futuro e raggiungere qualcosa di simile alla felicità). Con la promessa che, se saprete cogliere il messaggio di questo umile ma saggio pensatore, non ne resterete delusi.
(Il demone della paura, 144 pp, Laterza, 2014)
La società “liquida” che Bauman studia è una società “aperta”, ma non in senso positivo: significa “una società esposta ai colpi del destino”. Direte: in che senso, il destino? Nel senso più antico: forza imprevedibile. Confluisce tutto qui: terrorismo, cattiva informazione, business sbagliati… finisce che ci sentiamo indifesi. Di conseguenza, abbiamo paura. Bauman la definisce un “demone” perché si annida, la coviamo, ci rende impotenti, da soli, in tanti o collettivamente, togliendo energia e motivazione alle azioni di tutti i giorni, senza che noi facciamo praticamente nulla. Non facendo nulla, siamo portati a non fare nulla. Circolo vizioso, la paura. Un esempio? Le città. Sempre meno luoghi di incontro, sempre più stressanti, per evitare che le persone vi sostino (non vediamo, forse, sempre meno panchine?) Diventiamo degli estranei, a causa della paura.
Ma un modo per esorcizzarla c’è, ed è trovare degli strumenti – meglio ancora, costruirli – perché la paura nasce dall’incognito: quello che non conosci, e che non controlli, fa paura. E allora l’unico antidoto resta l’azione. “Fai la cosa che ti fa più paura: agisci”. La conoscenza trasforma l’angoscia in curiosità; chi agisce e interviene ha sempre meno timore di chi subisce passivamente. Educazione e istruzione aiutano.
Soprattutto, bisogna parlarne meno. Della paura, veramente. Pensiamo a tutte le volte che ci viene spiegato come uscire da un edificio in caso di incendio o cosa fare se un aereo precipita: è come se ci dicessero “se non avevi paura, meglio che tu ne abbia, almeno un po’”. Così, però, la coltiviamo. Fateci caso, e, quando sarete tentati di parlare per l’ennesima volta dei mali del mondo, fate così: cambiate argomento. Conoscere i pericoli non è sinonimo di diffondere il panico.
(Scrivere il futuro, 144 pp, Castelvecchi, 2014)
Predire il futuro: che prospettiva seducente. Per sbarazzarci di tutte le ansie pericolose e insopportabili che a volte patiamo. E il secolo scorso era iniziato bene: uomini “moderni” che, grazie alla scienza, pensavano di poterci riuscire. Ma. Poi il mondo è apparso sempre più instabile, sempre più “squilibrato”. Come una matita in piedi sulla punta che basta la prima folata di vento a farla cadere. La maggior parte dei cambiamenti non ci permettono di tornare allo stato precedente. Un volo in aereo pieno di turbolenze. “Non puoi sapere se, quando ti sveglierai domani, ritroverai il mondo così come lo hai lasciato” (a proposito di “modernità liquida”) “Da un lato, ci si sente privi di speranza e di sostegno, sentimento umiliante e spiacevole; dall’altro però, in modo sorprendente, la complessità accentua l’importanza dell’azione imprevedibile dell’individuo”.
Da qui il titolo del saggio, perché la matita ce l’abbiamo in mano noi e possiamo scrivere. Cioè, lasciare un segno.
“Gli atti dei singoli possono cambiare enormemente le condizioni dell’umanità”. Consci che: se il futuro non ci è dato, è perché la storia deve essere fatta. E siamo noi a doverla realizzare. Come? Scoprendo quali sono i nostri desideri. E unirci, ad altri, organizzarci, “instaurando un dialogo che ci accordi su idee e parole, anche molto diverse da persona a persona”.
(Meglio essere felici, 43 pp, Castelvecchi, 2017)
“Meglio essere felici che infelici. Tutto il resto è controverso”. Ma a questo punto, dopo aver ripercorso il pensiero di Bauman su tanti aspetti dell’essere umano, cosa potrebbe dirci sulla felicità? C’è chi dice che sia l’assenza di problemi, ma Bauman non è d’accordo. È più vicino al tedesco Goethe, che scrisse: “Ho avuto una vita felice, ma non ricordo una singola settimana felice”, ribadendo che angustie e disagi fanno parte di noi; e non a caso, Freud ricordò che “la felicità è un momento, il momento in cui superiamo qualche particolare infelicità. Quando soffriamo di mal di denti e poi si dilegua, ci sentiamo felici. Ma, se non aveste sofferto, non avreste provato alcuna felicità per via dell'assenza di dolore”.
Quale versione di felicità preferite? A voi la scelta.
Ricordando, però che A) possiamo lavorare su di noi, sul nostro carattere, fino a quando il confronto con gli altri non ci porta infelicità. Non dare il meglio, ma il meglio di noi stessi. B) “La felicità non risiede soltanto nello scambiarsi baci, questa è la parte più facile; sta anche nelle discussioni, nei tentativi di negoziazione, nel provare a capire le ragioni dell’altro".
AH, IL CLIENTE
E in conclusione, lui: il cliente eternamente infelice, eternamente insoddisfatto. Perché una riflessione, brevissima, va fatta. A differenza di altre epoche, dice Bauman, un utente “normale” può compararsi con chiunque intorno a sé. Da qui, l’eterno sentimento del “vorrei, ma non posso”. Da qui la convinzione che la felicità sia una meta raggiungibile, ma sempre dagli altri. Che il meglio risieda altrove. Direte: e non va bene, così? Viviamo in una società non di produttori, ma di consumatori, e se i clienti comprano è – anche – per sentirsi più felici, per riempire dei vuoti, per diventare “qualcuno”, ciò che desiderano. Tutto giusto. Vero, però, che l’insoddisfazione trasforma il mestiere del commerciale in una sfida, il più delle volte. Il cliente manifesta paure e frustrazioni, prima che bisogni. E, dopo aver sbirciato sullo smartphone la vita degli altri, desidera ancora di più. Qui si innesca la funzione economica e sociale del venditore.