Noi e gli altri


Sebastiano Zanolli Sebastiano Zanolli

Dal volume N° 36

Quante ore deve lavorare chi vende?

Prendo spunto da un saggio di Jonathan Crary, professore di arte moderna della Columbia University di New York. Il libro si intitola 24/7 ed è una interessante digressione sul mercato capitalistico e sulla progressiva invasione da parte del lavoro e della tecnologia non solo della nostra vita da svegli, ma anche di quella da dormienti.
Crary pensa tutto il male possibile di questo indubbio fenomeno, e reputa il capitalismo come un’entità negativa che spezzetta e ruba in modo subdolo gli ultimi scampoli di privacy e di tranquillità degli individui, sempre più vittime di un sistema carnefice.

In effetti il mercato non ti regala la vita di un monaco zen.
Il mercato ti porta però benessere materiale, compresi i cinquanta anni di vita media in più rispetto a quella degli antichi romani.
Io non sono nessuno per suggerire se valga la pena sostenere il gioco del libero mercato o se diventarne antagonisti.
So però che benedico gli anestetici del dentista e il supermercato aperto la domenica, il caldo del termosifone e il poter abbracciare mio padre nonostante un infarto che nell’800 non gli avrebbe lasciato scampo.

Detto questo, mi rimane un dubbio.
Quanto devo lavorare?
Quanto è giusto lavorare?
Chi vende, a mio parere, deve fare un passo indietro per provare a rispondere.
Chi vende di solito ha fatto una scelta.
La scelta è quella di essere il motore del sistema.
La causa immobile del sistema.
Una specie di chiodo a cui fissare tutta la cordata.
Uno che vende ha deciso di confermare non tanto la giustezza del gioco, quanto piuttosto la sua convenienza.
In effetti, il ragionamento appare pragmatico e cinico, ma tant’è, questo è quello che si esprime con il comportamento.
Una volta accettata questa consapevolezza, si è in grado di fare un passo avanti e vedere cosa si sottoscrive tacitamente quando il tuo lavoro è vendere qualcosa a qualcuno.
Il libero mercato trova uno dei suoi fondamenti nella dottrina di Adam Smith che, nella Ricchezza delle nazioni (1776), scriveva:
“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dal loro rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Ci rivolgiamo non alla loro umanità, ma al loro amor proprio, e non parliamo loro delle nostre necessità, ma della loro convenienza”.

Ecco, quando accettiamo, in buona o cattiva fede, di diventare i grandi sacerdoti, i predicatori per eccellenza dell’economia per come la conosciamo oggi, diventiamo garanti del meccanismo che dice che “l’interesse e la convenienza” guidano le azioni.
Rimane da definire per cosa dovrebbe essere l’interesse.
Le ore hanno una caratteristica strana rispetto alle altre risorse che un imprenditore usa per produrre risultati.
Le ore sono pezzi di vita.
I soldi non lo sono e nemmeno le materie prime.
L’energia elettrica o una pressa non lo sono.
Le ore, sì.
Qual è l’interesse di uno che vende?
A grandi linee potremmo ipotizzare che sia quello di produrre un margine con cui provvedere alla cura sua e dei suoi cari, passando più tempo con loro.
Diciamo che l’interesse sia quello di passare del tempo con le persone care in un clima di benessere materiale così da ottenere una sensazione se non di felicità almeno di serenità.

In questa equazione il tempo serve.
Quanto? Il più possibile.
La qualità del tempo è importante, ma la quantità, nelle relazioni affettive, vale almeno altrettanto.
Ma anche per vendere serve tempo. Ne serve tanto più quanto più siamo incompetenti, impreparati o inadeguati alla sfida che abbiamo raccolto.

Quante ore dovremmo lavorare quindi?
Da una parte e dall’altra della disamina, la risposta non può che essere: “Tutte quelle che servono per produrre il risultato cercato”.
Non vi aspettavate una risposta così relativa?
Mi spiace, ma per quanto mi sforzi, non ne trovo altre.
In compenso mi dico che:
1.    il gioco a cui gioco ha numerosi vizi ma il correggerli non rientra nel perimetro delle mie possibilità;
2.    nel mio perimetro rientra la possibilità di giocare e anche quella di giocare in un modo che sia il più appropriato alla mia sensibilità e coscienza;
3.    se decido di giocare, decido anche di esserne in grado attraverso studio, preparazione e attenzione;
4.    le ore lavorate devono essere il meno possibile e parametrate al risultato professionale, che deve a sua volta essere adeguato al risultato personale cercato.

Una cosa è certa. Vendere è un’attività complessa, che porta con sé conseguenze morali ed etiche di cui il tempo è solo un esempio.
Vale la pena riflettere attentamente sui benefici ma anche sui prezzi che si è disposti a pagare, prima di scegliere un lavoro antico ma che le nuove tecnologie e i nuovi fenomeni sociali stanno ridisegnando velocemente.
Il venditore è uno che per definizione sceglie: obiettivi, azioni, sacrifici, conseguenze.