VENDITA I LOVE YOU?
NESSUNA CRISI DEL SETTIMO ANNO: LA PASSIONE PER LA PROPRIA AZIENDA PUÒ SPEGNERSI MOLTO PRIMA. NEL SETTORE COMMERCIALE, DOVE IL TURNOVER DEL PERSONALE È ALTO, NON BASTA SOLO TROVARE I PROFESSIONISTI MIGLIORI, BISOGNA ANCHE NON LASCIARSELI SCAPPARE
Il “ricambio” nelle vendite
Per quanto se ne possa dire, quella del venditore rimane oggi una figura molto richiesta. Gli uomini e le donne che, valigia in mano, movimentano ogni giorno il fatturato delle aziende italiane e internazionali sono migliaia. Chi lo fa per professione dice che è uno dei più lavori più belli perché molto dinamico; chi è bravo sa di avere molte opportunità di crescita.
Ma veniamo ai numeri: secondo i dati del sistema informativo Excelsior raccolti da Unioncamere, i direttori commerciali assunti in Italia nel 2010 sono stati più di 500. E così, a cascata, le figure più ambite nel settore: responsabile inside sales, export area manager, key account, trade marketing manager, product manager e molte altre.
Circa il 50% delle inserzioni nel mercato del lavoro italiano riguarda posizioni in ambito sales e marketing. Che cosa significa? Che da una parte esiste un elevato turnover, e che dall’altra la vendita rimane l’ambito privilegiato nel quale le aziende competono.
La “crisi del sesto mese”
Il costo del turnover del personale, e in questo caso della rete vendita, ha per le aziende un forte impatto negativo. Quanto è da considerarsi fisiologico? Frédéric Beigbeder, scrittore francese e autore del discusso e sarcastico saggio L’amore dura tre anni, è convinto che anche la passione più struggente, il più grande degli amori, veda il suo inevitabile, scontato declino al trascorrere del terzo anno. L’incantesimo si scioglie, inesorabilmente. Alcuni potrebbero definirlo un pessimista, altri un realista (conosco chi lo giudicherebbe un inguaribile ottimista!).
Molti oltre a lui hanno cercato di stabilire un tempo per l’amore, scientificamente o meno. Allo stesso modo un gruppo di studiosi della Sirota Survey Intelligence, società statunitense specializzata in indagini e statistiche per le imprese e il business, ha provato a scoprire quanto possa durare l’amore verso la propria azienda. La ricerca, realizzata intervistando più di un milione di lavoratori dipendenti, ha evidenziato che, quando si tratta di un impiego, dopo l’entusiasmo iniziale sono sufficienti meno di duecento giorni perché la “passione” si spenga. Duecento giorni, sei mesi… altro che i tre anni di Beigbeder!
D’altro canto il valore della forza vendita si riflette anche sulla valutazione del valore d’impresa, se consideriamo quegli indici qualitativi che per esempio le società di “private equity”, impegnate in sistematici e considerevoli investimenti nelle quote di altre imprese, considerano quasi più efficaci dei dati finanziari. In base a queste stime possedere una rete vendita con un turnover stabile, fisiologico, e ben remunerata, è segno di solidità del portafoglio clienti e prima garanzia di sviluppo.
Bastano gli incentivi?
Dunque oltre ad avere i migliori venditori è strategico mantenerli. Esistono molte teorie su come motivare il personale: è ormai prassi consolidata per queste figure, come per quelle manageriali, adottare un sistema incentivante che migliori il rendimento e accresca il senso di responsabilità e coinvolgimento.
Annoso problema, visto che il rapporto tra soddisfazione e ricompense non è sempre lineare. E la crisi che ci ha colpiti a partire dal 2008 non aiuta, perché nei momenti di contrazione economica sono proprio le politiche incentivanti a subire un forte ridimensionamento.
Questo sistema di stimolo deve comunque essere significativo, cioè superare la soglia del 15-20% dello stipendio base.
Quantità vs qualità
Sta di fatto però che è necessario trovare un certo equilibrio, ossia come già diceva Barnard nel 1938, “offrire denaro fino al punto in cui questo assume maggior valore per il datore di lavoro e minor valore per il dipendente, e ulteriori incentivi il cui costo sia modesto per il datore di lavoro ma ritenuti di molto valore per il dipendente”.
Esiste una varietà di elementi legati o meno al contesto organizzativo, soggettivi o oggettivi, che potrebbero essere sintetizzati nell’espressione “work-life balance” (equilibrio vita-lavoro), e quindi strumenti di flessibilità temporale, servizi per il benessere personale e la vita familiare.
In Italia, dove la realtà imprenditoriale è costituta prevalentemente da piccole e medie imprese, siamo abituati a premiare i risultati quasi esclusivamente sulla base del fatturato o di componenti puramente quantitative, come il profitto, la riduzione dei costi e così via. Un dato che fa riflettere. In un’epoca nella quale le aziende richiedono ai propri commerciali di essere motivati, flessibili, disponibili a cambiamenti continui, responsabili del proprio lavoro e capaci di lavorare in gruppo, l’abilità da parte del management di coinvolgere le proprie risorse sembra quanto mai essenziale. Decisiva, oserei dire, se è vero che il successo di un’azienda passa attraverso le persone che la compongono.
Benefici? Non solo “in contanti”
Molto interessante da questo punto vista un’indagine svolta tra il 2007 e il 2009 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Genova su un campione di 40 aziende del Nordovest. Dalla ricerca, che si inserisce all’interno di uno studio più ampio finalizzato a presentare il progresso nell’utilizzo degli strumenti di gestione delle risorse umane, risulta che la strategicità della persona nell’azienda viene tradotta in un’attenzione a incrementare al massimo la produttività, agendo principalmente sul livello qualitativo del lavoro, più che su quello quantitativo, che comunque rappresenterebbe un costo.
Emerge anche che la tendenza è quella di affiancare agli incentivi economici, considerati solo parzialmente alla base di un rapporto duraturo e di fiducia, benefit “costruiti” sulle esigenze specifiche dei dipendenti. Fra le formule incentivanti più innovative si possono citare asili nido, introduzione del telelavoro, riorganizzazione degli spazi di lavoro, forme di affiancamento e tutoring.
Resta aperta la domanda su quale sia l’aspettativa della persona che lavora. Ed è sicuramente questa la questione con la quale occorre confrontarsi. In un momento storico ed economico nel quale si persegue il potenziamento continuo (e per questo denominato “empowerment age”) la soluzione per ravvivare un rapporto è dunque un cambiamento nello stile direttivo? Sostituire il coaching al controllo, piani di sviluppo della motivazione a piani di valutazione del risultato rafforzerebbe l’amore per l’azienda, la passione per il proprio lavoro, il coinvolgimento verso gli obiettivi aziendali? A voi la risposta.