Messaggi leggeri, leggerissimi (o anche no)
Su LinkedIn vi abbiamo chiesto:
Il mio commercialista mi ha lasciato a piedi. Problema, di per sé, di facile soluzione (ne ho già scelto un altro, in tempo per la prossima dichiarazione dei redditi). Il vero problema sta nella modalità con cui me lo ha comunicato: via email, senza neanche una telefonata, nessuna indicazione pratica sul da farsi: e i miei documenti? Quando posso recuperarli? Come? Dove? I contatti finora attivi lo resteranno per quanto? C’è altro di utile che dovrei sapere? Zero assoluto. “Buongiorno, con la presente comunico la chiusura del centro contabile Tal dei tali e la chiusura dei rapporti di consulenza e assistenza legati a questa società. Cordiali saluti”. Scusa, come?
“Fatti non foste a viver come bruti” diceva il Poeta. E a “scriver come bruti”. Tralasciando l’email anonima e mandata uguale a tutti i clienti (neanche il mio nome, perdio!), sono sicura che la chiusura di un rapporto di consulenza meriti di più di un breve messaggio al computer. Io, come cliente, merito di più.
“Fatti non foste a scriver come bruti”, ma “a perseguire virtute e canoscenza”, e invece spesso “virtute e canoscenza” vanno perse, nella comunicazione veloce, velocissima di tutti giorni.
COMUNICAZIONE LEGGERA, LEGGERISSIMA (O FORSE NO?)
È dall’inizio dell’anno che su V+ stiamo capendo meglio come usare le parole (anno nuovo, lingua nuova!) Negli scorsi numeri, abbiamo visto: quale gergo di business o aziendalese possiamo abbandonare, perché non ha più niente da dire (resilienza, attenzionare… facciamo basta?); come non scrivere un annuncio di lavoro (mindset, capacità spiccate: facciamo basta?).
Adesso entriamo nella comunicazione più “spicciola”, quotidiana, leggera, ma neanche tanto, visto che ci lavoriamo e che possiamo combinare dei guai. Gli strumenti li conoscete bene:
• email. Sono nella nostra vita da un po’, e ci ostiniamo a usarle come capita (“con la presente…”, vabbè).
• Conversazioni su Whatsapp. Whatsapp ormai è uno strumento di lavoro. Siamo fieri delle nostre chat?
• Commenti su Facebook o su Instagram, messaggi diretti su LinkedIn. Ci ragioniamo o digitiamo per istinto?
Ok la comunicazione veloce, ma… “prima di parlare, pensa”. E prima di scrivere, ancora di più.
Come vedrete dagli esempi qui sotto, non si richiedono un lessico da vocabolario o la grammatica perfetta: più spesso sono piccoli accorgimenti di buona educazione (eh sì), o il risultato del “prima di cliccare invio… riflettici” che citavo sopra. Decenni di internet non ce lo hanno ancora fatto entrare bene in testa. Ribadiamolo.
Appunto pratico e spunto di lettura: per scrivere questi consigli, mi farò aiutare dal giornalista e filosofo Bruno Mastroianni e dalla linguista Vera Gheno che hanno scritto un libro preziosissimo per la comunicazione: Tienilo acceso, edito da Longanesi (tutte le frasi tra virgolette sono prese da lì).
1. Non è mai un monologo: è comunicazione
Il motivo per cui scriviamo un’email, un messaggio o un commento non è fare un soliloquio, ma dire qualcosa a qualcuno. Partiamo da qui. “Comunicare” significa “mettere in comune”, e se siamo imprecisi o sgarbati, non stiamo mettendo in comune un bel niente: saremo solo fonte di frustrazione per chi ci legge e molto probabilmente nascerà un fraintendimento. Ci sono email o messaggi puramente informativi, certo, ma “comunicare” non vuol dire solo condividere delle informazioni (date, ore, numeri): significa tenere aperto un canale. La scrittura diventa comunicativa solo quando, usandola, siamo capaci di “tenere aperto un canale relazionale”. Cioè gran parte della comunicazione (sì, anche via email, anche su Whatsapp!) avrà come effetto quello di iniziare, mantenere o distruggere una relazione con un’altra persona. Detta così, fa effetto, vero?
2. Ricordati di salutare
Se la comunicazione è prima di tutto relazione e poi informazione, sforziamoci di rispettare un certo galateo. Leggo tantissime email, anche di persone che non sento da un po’, che iniziano “di brutto”: neanche “ciao, come stai”. La vita è frenetica, il lavoro non ne parliamo, ma il saluto è un piccolo rituale di cui abbiamo bisogno, anche nella comunicazione online (solito esempio: andresti mai da qualcuno per strada iniziando a parlargli dal nulla?)
Lavorando con gruppo di lavoro di Amsterdam, noto che nelle culture chiamiamole nordiche il passaggio “Hi! How are you doing? Hope everything is going well” è obbligato; attenzione, non è pura formalità. Se glielo chiedo, le persone rispondono: raccontano, mi aggiornano, ringraziano per averglielo chiesto (in un periodo di pandemia poi…) Questa sensibilità predispone meglio ai dialoghi lavorativi che seguono. Avvicina.
3. Ricordati di salutare (anche alla fine)
No ai messaggi monchi: alla fine, basta un ciao. Anche qui: congederemo mai qualcuno incontrato per strada senza salutare? Se lo scambio di messaggi è in pieno corso, non serve; ma è bello che, in conclusione, qualcuno tiri le fila. Perché devo vedere “Tizio non è più online” o “Caio ha disattivato le notifiche”, eclissandosi? “Ciao, eh”. È cortesia. Così so che possono disconnetterci anch’io e non abbiamo altro da dirci. È la relazione, bellezza!
4. Se devi fare un recap, fallo senza sbuffare
Non c’è da perdere tempo, d’accordo. Abbiamo tutti cose da fare. Però se una chat si prolunga da un po’, se le email sullo stesso argomento hanno già creato un carteggio bello lungo e pensiamo che un riepilogo possa giovare, riepiloghiamo! Certo, le persone coinvolte potrebbero prendersi la briga di ripercorrere i messaggi e le puntate precedenti; ma se abbiamo in mente la situazione nel complesso, faciliteremo loro e anche noi stessi, perché più chiarezza per loro significa meno fraintendimenti, meno incomprensioni, e meno sbatti per noi. Come quella volta che ho mandato un pdf al posto del jpeg di un articolo di V+, e sono stata redarguita, perché “lo sai che ho bisogno del jpeg, no?” Sì, forse lo so, ma mi sarò dimenticata! Ricordamelo, e saremo entrambi più felici e più contenti.
5. Le faccine non bastano
Sono sincera: pensavo che di articoli sugli elementi della comunicazione (verbale, non verbale, paraverbale) ne fossero stati scritti a sufficienza. Mi sono dovuta ricredere: quanti messaggi pseudo ironici, quante frecciatine, quanto “pesantume” condito da faccine o emoticon sorridenti. Ma non è che, se aggiungi uno smile alla fine, il messaggio diventa improvvisamente gentile.
Sono sicura che capiti anche a voi. Allora: “Online non abbiamo il corpo, il tono di voce, le posture, gli sguardi ad aiutarci a gestire il confronto. (…) Ciò sposta il piano dell’interazione completamente sul piano della scelta delle parole”. Sul piano della scelta delle parole, non delle emoticon.
Aggiungiamo pure che, prima del messaggio un po’ freddo (riprendiamo il jpeg di prima), non abbiamo prima scritto neanche un “ciao, come stai”. Il pasticcio è fatto. “Lo sai che ho bisogno del jpeg”. Puoi mettermi tutte le faccine che vuoi dopo, ma se non dici “grazie”, se usi questo tono scocciato (posso scrivere, scazzato?), sorry but not sorry, non reagirò benissimo.
Perché le faccine non bastano? Perché “il piano del contenuto, cosa diciamo, e il piano della relazione, l’effetto che le nostre parole ottengono, vanno sempre tenuti assieme”. Nell’esempio del jpeg, io ho capito perfettamente il contenuto, cosa mi si sta chiedendo, quindi il difetto non sta lì, il difetto sta nella relazione: il messaggio aveva un tono sgradevole, e ha creato in me una sensazione altrettanto sgradevole. Per carità, niente di grave, ma pensate a quando i toni si surriscaldano davvero: arriviamo a distrarci completamente dal contenuto informativo, e quindi dall’ascolto, e quindi dalla comunicazione, e finiamo a litigare. Quante volte? Disclaimer: un litigio per email o su Whatsapp raramente porta a qualcosa di buono… ma questa è un’altra storia.
Come avrei voluto che mi si chiedesse quel benedetto jpeg? Facile: “Ciao, tutto bene? Riesci a mandarmi il jpeg dell’articolo? Grazie”. Faccina sorridente alla fine o anche no. A questo punto non sarebbe stata necessaria, perché il tono del messaggio era già… sorridente!
Potreste dirmi: “Eh ma, hai frainteso”. Magari chi mi ha chiesto il jpeg non voleva farlo in malo modo. Questo ci fa capire, però, che il centro della comunicazione non siamo noi: è l’altro! L’altro legge il messaggio, non ci legge la mente: quindi la chiarezza è onere nostro. Siamo noi che dobbiamo impegnarci per non essere male interpretati. “Senza dimensione fisica, l’interazione si sposta a un livello mentale e di significati”.
E infine: ricorda che quello che scrivi rimane
Le email restano. Le chat restano. I commenti restano. Possiamo pentirci, rinsavire e cancellare tutto, ma di là qualcuno avrà già salvato o fatto uno screenshot. Se stiamo cercando un solo motivo per prestare più attenzione alla comunicazione di tutti i giorni, eccolo qui: gli scambi via email, su Whatsapp o sui social sono permanenti. “Ciò che scriviamo rimane più a lungo (potenzialmente per un tempo indefinito) rispetto a ciò che diciamo a voce. Può metterci in difficoltà perché il nostro pensiero rimane fissato per iscritto anche quando è frutto di uno scambio informale e veloce”. Non solo: “Le parole, per il fatto di essere scritte, sono più rilevanti rispetto alla volatilità della discussione a voce e in presenza”. Scripta manent, no? Quindi è vero che email, chat e commenti fanno parte di una “comunicazione veloce”, però è come farsi un tatuaggio che praticamente non ci togliamo più.
Avrei anche potuto non iniziare questo articolo con il fattaccio del commercialista; in ogni caso, l’email è lì, e potrei mostrarla a chiunque (prima di questa, un’altra in cui mi si diceva che i documenti per la dichiarazione dei redditi andavano consegnati a mano solo dalle 8 alle 12, con buona pace per chi come me lavora, per esempio, e sta a 25 chilometri. Sì, forse dovevo prenderlo come un segno di come sarebbe andata a finire…)
Quindi io continuerò a prestare attenzione a come scrivo e a come gli altri scrivono o scrivono ad altri (se avete episodi di vita simili, condivideteli!) Il mio ex commercialista, bè… thank u, next!
QUINDI
“La libertà di parola non è dire tutto quello che penso, ma pensare bene a quello che dico”. Standing ovation.