Il buono della tristezza
Viviamo una specie di culto della felicità: almeno una volta al giorno, ci sentiamo dire che "l'importante non è la destinazione, ma il cammino e devi godertelo"; "sii felice, qui e ora"; "anche in azienda, la felicità è fondamentale".
Sacrosanto. Ma altrettanto lo è l'esperienza della tristezza.
Affannarci per eliminare il "brutto" della vita è controproducente: Oliver Buckerman dimostra che, proprio quando ci preoccupiamo di raggiungere la felicità a tutti i costi, viene meno il concetto stesso di felicità.
Inoltre, non sempre questa esaltazione del benessere (well-being) nel pensiero occidentale ha portato conseguenze storiche positive...
Ci dimentichiamo (o siamo portati a farlo) che la tristezza fa parte delle emozioni umane, e, come emozione umana, dobbiamo provarla e passarci attraverso: è naturale. Siamo fatti anche per essere tristi. I brutti momenti vanno ricordati, assimilati e interiorizzati.
Don Draper nella serie tv Mad Men ricorda che "la pubblicità si basa su una cosa sola: la felicità". Quella che le aziende e i marchi vogliono assolutamente trasmettere per stimolare l'acquisto. E in effetti, la felicità è ovunque: pensiamo solo alla campagna "Stappa la felicità" di Coca-Cola. In genere, il prodotto vuole essere associato ai "momenti migliori" della vita di un consumatore. E non c'è niente di male in questo.
Il "buono" della tristezza
Ma non dobbiamo negare le emozioni contrarie alla felicità; perché anzi, uno stato umorale "basso" può avere dei benefici.
Storicamente, filosofi e studiosi lo sostengono da sempre: la tristezza e il dolore sono sentimenti essenziali per vivere una vita piena. La tragedia greca, per esempio, nasce sì, come intrattenimento, ma soprattutto come momento di "catarsi", durante il quale il pubblico era posto davanti a situazioni difficili (battaglie, tradimenti, morti...) e, entro la fine dello spettacolo, aveva avuto modo di prenderne coscienza, familiarizzare con quelle sfacettature dell'animo umano. Lo stesso Epicuro, che viene sempre ricordato come "il filosofo del piacere", in realtà incoraggiava i suoi seguaci a fare pratica del giudizio negativo, delle avversità, dell'ingiustizia, della perdita, perché parti imprescindibile della natura.
- Le emozioni negative innescano in noi una risposta agli eventi, contro i quali non potremmo reagire se non provassimo dolore o tristezza. Sono dei segnali di allarme, proprio come il dolore fisico, che ci avverte che qualcosa non va. Se non provassimo queste emozioni, non potremmo reagire e difenderci.
- Le emozioni negative, dunque, ci rendono reattivi nelle situazioni complesse.
- Ci aiutano, inoltre, a manifestare il nostro disagio agli altri: spinti da esse, siamo portati a comunicare e a chiedere aiuto.
- Di riflesso, le emozioni negative fanno nascere negli altri (almeno, nelle persone "giuste") il desiderio di aiutarci, e dunque, alla fine, si tratta di una cosa semplice: sopravvivenza della specie.
- In alcune persone, questo tipo di emozioni permette di pensare in maniera più lucida: a differenza della felicità, che esalta e "confonde", la tristezza ci mette in uno stato di riflessione, che può aiutarci a cambiare punto di vista, ad ampliare la visione, a essere anche più creativi (fortunate queste persone, devo dirlo!)
- Diventiamo più attenti, e la nostra memoria si fa più acuta: infatti, se un cliente entra in negozio e rimane deluso dall'acquisto, ricorderà (purtroppo) tutti i dettagli di quel momento (e del negozio). Perché, secondo alcuni studi, la negatività accresce la memoria visiva e riduce le distrazioni.
Disclaimer: in questo articolo non si fa riferimento a forme di tristezza o depressione durature o croniche, per le quali è bene rivolgersi a un esperto