Lo storytelling? Un metodo per la felicità
La capacità di narrazione, chiamata semplicemente "storytelling", cioè il saper raccontare delle storie, non è solo un metodo per presentare la nostra azienda: determina, in molti casi, anche la nostra sopravvivenza.
Jonathan Gottschall nel libro The Storytelling Animal spiega come le storie siano un "pilota automatico" che, se inserito, ci aiuta a superare i momenti più complessi della vita. Questo perché spesso i sentimenti negativi - e di conseguenza la nostra impossibilità di reagire agli eventi - sono causati dal modo inesatto con cui ci vediamo e "raccontiamo" a noi stessi chi siamo. "Solo gli esseri umani - dice Gottschal - raccontano storie. Per gli esseri umani le storie sono come la forza di gravità, un campo di forza che ci circonda e influenza i nostri movimenti. Le storie sono talmente presenti nella nostra vita che a malapena sappiamo quanto formino la nostra vita".
La mente umana racconta storie in continuazione: ripensiamo a cosa ci è successo dopo che ci è successo, ci diamo giudizi estetici, personali e professionali in maniera inconscia. Di fatto, "ci raccontiamo delle storie", che, a seconda dello stato d'animo o dello stato delle cose, può finire bene o male. Il finale lo determiniamo noi, in base all'opinione che abbiamo di noi stessi e degli altri. Se "finisce male" troppe volte, subentrano tristezza, paura, angoscia, emozioni che possono paralizzare e mettere anche a repentaglio la nostra salute - non solo la nostra carriera!
La scienza dimostra che imprimere agli eventi una direzione positiva - e quindi raccontarci storie "buone" - conserva l'autostima e ci rende più "abili" ad affrontare il mondo. Non significa mentirsi, ma imparare a osservarci da un'altra prospettiva. C'è chi vede in questo la semplice differenza tra ottimisti e pessimisti; in realtà è più sottile. Timothy Wilson, autore di Redirect, parla di processo di "story editing": l'editore di un libro, quando lo deve presentare al pubblico, ha il compito di migliorare la forma del testo mantenendone intatta la sostanza. Si tratta, insomma, non di cambiare quello che ci è successo (non potremmo neanche se volessimo!), ma di girare in positivo il modo di pensare a quello che ci succede. Ri-direzionare, come da titolo dell'opera di Wilson, e torniamo all'esempio del pilota automatico. Wilson parte da una situazione a lui molto familiare come professore di psicologia all'università della Virginia: gli studenti e gli insuccessi scolastici. Un esame fallito può avere due esiti, al di là di quello puramente accademico: può essere un passaggio intermedio verso saperi e abilità acquisite o il segnale che con l'università dobbiamo smettere. Quale dei due esiti è corretto? Dipende. Da noi e da quello che pensiamo. Wilson ha lavorato con gruppi di studenti separati, e quelli che hanno intepretato una bocciatura meno negativamente degli altri hanno aumentato i buoni risultati l'anno successivo.
Chi sta leggendo e ha frequentato l'università sa di cosa parliamo, e chi non l'ha frequentata pensi a una qualsiasi situazione che ha vissuto come manager, venditore, collega, genitore, amico: quando è stata l'ultima volta che avete interpretato con negatività un evento? E come è andata poi?
La risposta la sappiamo già.