Da George Orwell agli hashtag: il potere delle parole
IL MODO IN CUI SCRIVIAMO DICE COME SIAMO. E LIMITA O AMPLIFICA IL NOSTRO PENSIERO
Da quando è uscito il mio libro Le parole sono importanti, da più parti mi chiedono 5 consigli per scrivere bene, 7 errori da non commettere, 4 regole per una email perfetta. Purtroppo – o fortunatamente –, la lingua è una somma di attenzioni, non si risolve in un apritisesamo, non c’è un tasto da premere e tutto si risolve. Comprendo che la visione della vita è ormai ridotta in “pillole”: ho mal di testa, prendo le goccette; voglio diventare ricco, leggo un articolo; sono sovrappeso, abbraccio la dieta magica che mi fa perdere venti chili in cinque minuti. Il concetto di fatica è rimosso. Peccato che comperare la “pasta che ti rende snello” costi 250 euro a kit, e che per guadagnare questa somma devi lavorare cinque giorni. Sai quanta ginnastica facevi in cinque giorni?
Quindi, niente ricette facili con le parole, solo qualche suggerimento prima di accingersi a scrivere.
- Scrivendo ci rivolgiamo agli altri. Perfino il diario che aggiorniamo alla sera nell’intimità della nostra cameretta è rivolto a qualcuno diverso da noi: i posteri. Ciò significa che dobbiamo personalizzare la nostra comunicazione, tagliarla su misura del nostro pubblico. Invece spesso scriviamo al direttore di banca nello stesso modo in cui scriveremmo al nostro magazziniere o al presidente della Repubblica del Ghana. Non considerando le peculiarità del nostro interlocutore, adottiamo un formulario standard. Pazzesco! Customizziamo tutto, persino la custodia per i cellulari maculata di elefantini rosa, e nella scrittura siamo rozzi come l’uomo di Neanderthal (che notoriamente non conosceva la scrittura)…
- Scriviamo soltanto se necessario: siamo invasi di parole, spesso superflue, imprecise, manipolatorie. Cerchiamo di scrivere quando abbiamo qualcosa da dire. L’eccesso di informazione è disinformazione. L’eccesso di comunicazione porta incomprensione perché nel mare magnum non riusciamo a distinguere i messaggi importanti da quelli prescindibili, le persone ricche di contenuto da quelle vuote di pensiero. Sono rimasto disconnesso alcuni giorni a causa di un tentativo di truffa informatica. Significa che sul cellulare non avevo email, Facebook, Whats App… Potevo “solo” telefonare e ricevere sms. Quando sono tornato in connessione, avevo 238 email da leggere. Sapete quante di queste erano interessanti PER ME? Due: una, che mi forniva i dati per fatturare un lavoro di scrittura di testi, l’altra che mi confermava le date di un corso di scrittura che dovevo tenere in un’azienda. Basta.
Altra cosa: la mia quantità di comunicazioni in entrata si era quasi azzerata, durante il blackout. Un amico mi ha fatto notare: ovvio, i messaggi col telefonino costano. Allora ho pensato: la maggior parte delle cose che scriviamo sono totalmente trascurabili. Se riteniamo che non valgano nemmeno i 10 centesimi del loro costo, vuol dire che possiamo vivere senza. Rompiamo le scatole al prossimo perché è gratis, non perché abbiamo qualcosa da dirgli! Sto meditando di lanciare una campagna contro l’inquinamento verbale, che affianchi le mie precedenti contro i nani da giardino, l’abuso dello zenzero in cucina e il ricorso al carattere Comic Sans nelle comunicazioni ufficiali.
- Impariamo parole nuove. Le parole sono possibilità espressive: più parole conosciamo, e con maggior esattezza riusciamo a far capire il nostro pensiero; meno parole conosciamo, e più basici saranno i nostri discorsi. Non possiamo parlare di ciò che non siamo in grado di descrivere.
La lingua italiana ha circa 150.000 parole e ogni parola possiede mediamente tre significati. Disponiamo di mezzo milione di opzioni. E quante parole usiamo quotidianamente? 400! È come entrare in una pasticceria e trovarsi di fronte babà, cornetti, cassate, tiramisù, sacher, millefoglie e accontentarsi di un biscottino secco e duro. Un amico mi ammonisce: l’importante è capirsi. Sono d’accordo. Anche il cavernicolo che prendeva la donna per le chiome e la sbatacchiava di qua e di là si faceva capire. Credo che l’umanità sia giunta a uno stadio di sviluppo tale da giustificare qualcosina di più in termini di raffinatezza espressiva.
(Aggiungo una nota: l’abuso di parole straniere non è un male in sé; è opinabile dal momento che prendiamo in prestito parole da lingue che ne hanno molte meno di noi. Siamo come chi andasse a chiedere un prestito in denaro a un mendicante, magari quello di cui parlavamo all’inizio. Lo conferma il fatto che l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo: gli altri vogliono imparare l’italiano, noi facciamo di tutto per disimpararlo.)
Considerate un’altra cosa. Il potere è sempre nemico della parola. Il potere usa lo slogan – oggi diremmo: hashtag, come in passato “Arbeit macht frei” o “Giornalisti ladri”, non l’argomentazione; oppure ricorre al burocratese, cioè nasconde le informazioni utili e rende oscura la comprensione, perché chi detiene le parole esercita il dominio.
George Orwell nel suo romanzo 1984 ha mostrato, affrontando la situazione opposta, come la parola sia strumento di libertà. Il Big Brother creando la Neolingua per prima cosa interviene sulle parole: ne riduce il numero, semplifica la morfologia (verbi solo all’infinito), abolisce le parole che rimandano a concetti sgraditi. Finché non sai nominare una cosa, è come non esistesse. Alla lunga, se non disponi degli strumenti linguistici per circoscrivere un concetto, perdi la capacità di pensarlo. Meno parole = meno autonomia di pensiero. E ai tiranni questo piace parecchio.
Coltivare le parole, quindi, non è un obbligo cui sottoporci per accontentare qualcuno, è nostro interesse! Se conosciamo mille parole, possiamo scegliere di usarne cento ma se ne conosciamo cento siamo costretti a usare quelle. Ci stiamo schiavizzando da soli, dal momento che scegliamo tra 400 anziché tra 150.000.