QUANDO MIA NONNA MI DISSE: «MA FAI IL COMMESSO VIAGGIATORE?»
Sono nato a Palermo nel 1972.
Oggi mi occupo di formazione e consulenza per aziende e manager, nei settori del marketing e del commerciale, ma non è così da sempre: mi sono laureato, giovanissimo, in Architettura e design, e dopo un periodo trascorso sul tavolo da disegno, decido di frequentare il master in Strategic design al Mip, la scuola di management del Politecnico di Milano.
È allora che inizia la mia carriera in azienda, prima nell’ufficio marketing di Derbi, marchio del gruppo Piaggio, poi nel reparto commerciale di imprese appartenenti a gruppi industriali importanti, come Fini e Targetti.
Dico sempre che il passaggio dal design al marketing e quindi al commerciale è stato un cambio non tanto di professione, ma di punto di vista: ho continuato a indagare le richieste del mercato, tentando di conciliarle con gli obiettivi e le risorse delle aziende per cui lavoravo, solo che potevo guardare le cose dalla prospettiva del cliente.
Poi un giorno mia nonna mi chiede: «Fai davvero il commesso viaggiatore?». Premesso che è una professione nobilissima e, vista dalla prospettiva attuale, anche ammantata da un’aura di romantico pionerismo, quella domanda conteneva un’accezione negativa, e se espressa per esteso sarebbe suonata più o meno così: «Ma come, dopo tutti gli studi, la laurea, ti sei ridotto a fare il venditore?».
Senza saperlo, mia nonna aveva toccato un tema aperto nel dibattito intorno alle carriere aziendali: è esistito – e in parte esiste ancora – un pregiudizio tutto italiano secondo cui il mestiere del venditore è un ripiego di professionisti altrimenti chiamati ad altro. Nelle patrie università, fino a qualche anno fa, non si parlava di vendita, e in molte organizzazioni imprenditoriali l’attività commerciale era affidata al talento per la relazione e all’esperienza di qualche carismatico personaggio, più che alla strutturazione di precise procedure e competenze.
Le perplessità della nonna erano scaturite proprio dal mio passaggio dall’ufficio marketing a quello commerciale dell’azienda per la quale al tempo lavoravo. Un passaggio avvenuto dopo mie insistenti richieste, e aggiungo per nulla indolore, non essendo previsto dai percorsi di crescita del personale. Lo ricordo bene: vengo chiamato dal responsabile delle Risorse umane il quale mi chiede preoccupato se dietro la mia richiesta si celino malesseri particolari o altro.
La verità è che semplicemente, da uomo di trade marketing, vivevo la frustrazione di non portare fino in fondo – dentro la casa del cliente, intendo – i miei progetti, e volevo mettere a tacere quei colleghi del commerciale che non perdevano mai occasione di ripetermi: «Finché non andrai a vendere, non capirai mai cosa ci serve veramente». Vinco la mia piccola battaglia, e le perplessità del responsabile Risorse umane, e vengo lanciato in un reparto di prima linea nella periferia dell’azienda.
Con il tempo e l’esperienza ho scoperto che la professione del commerciale non s’improvvisa, ma si basa su delle competenze, che vanno allenate, anche quando si fondano su naturali attitudini: la comunicazione efficace con i clienti e i colleghi; la gestione del cliente e l’attitudine al servizio; il problem solving e la gestione delle priorità; le tecniche di vendita e negoziazione; la conoscenza dei canali di distribuzione; la capacità di lettura e analisi dei dati economico-finanziari dell’azienda e del mercato, la conoscenza, infine, degli strumenti menti di marketing (leva prezzo e sistema di distruzione) e dei principali sistemi di verifica dei risultati.
Non dimenticherò mai le parole che il mio capo (ex direttore commerciale promosso al ruolo di direttore marketing) mi ha detto quando stavo per lasciare l’ufficio marketing: «Alberto, ricordati che il mestiere del commerciale è il più bastardo di tutti, primo perché è facilmente misurabile, secondo perché chiunque pensa di poterlo fare».
Da allora la strada percorsa è stata tanta: mi sono trasferito prima in Lombardia e poi in Emilia Romagna; ho preso una seconda laurea, in Economia, all’università di Bologna; nel 2011 ho deciso di aprire una mia azienda di consulenza e formazione, anche grazie all’aiuto di mia moglie, Alice, docente di tecniche di comunicazione efficace.
Ho preso a collaborare con varie altre aziende del territorio come temporary manager o consulente, e a insegnare marketing e tecniche di vendita all’interno di master post universitari.
All’inizio del 2012 ho aperto il blog Diario di un consulente, dove pubblico storie e aneddoti sulla mia attività professionale, ma anche consigli per chi fa il mio stesso lavoro; di recente, assieme sempre a mia moglie e a Canzio Panzavolta, consulente di direzione ed esperto di controllo di gestione, ho dato vita a un master executive per imprenditori e manager su come gestire, controllare e aumentare le vendite.
Perché, vi chiederete, ho scelto di fare un ulteriore passo in avanti, di diventare imprenditore? Semplice: nella mia carriera in azienda avevo raccolto molte soddisfazioni, ma desideravo un cambiamento. Quando ho iniziato a condividere quest’idea, tutti mi davano del matto: lasciare una carriera sicura per intraprendere, in piena crisi economica, un percorso imprenditoriale! Nessuno capiva, tranne mia moglie. E anch’io ero convinto che la razionalità non potesse essere l’unica bussola per orientarsi nella vita e nel lavoro. Se c’è una cosa che dieci anni nel commerciale mi hanno insegnato è che bisogna fidarsi del proprio istinto, credere nelle proprie potenzialità, assumersi dei rischi. Vendere significa, prima di tutto, saper ascoltare, se stessi e gli altri, perché ogni mercato è un luogo di relazione, dove il denaro e il successo sono solo modi di misurare e regolamentare lo scambio di beni e servizi, dietro ai quali, però, ci sono dei bisogni umani, i veri protagonisti della nostra professione di venditori.