Turnover, quando l'amore finisce
LA RELAZIONE COMMERCIALE SEGUE DINAMICHE MATRIMONIALI
(MA IL TURNOVER FA MALE DI PIù)
Se c’è un dato che la dice lunga sul cosiddetto clima aziendale è il tasso dei flussi in uscita nel turnover del personale. Difficile stabilire quali siano oggi gli standard da considerare fisiologici, tenendo conto che in poco più di una decina d’anni i contratti a tempo determinato sono passati nel nostro paese da 2 a 3 milioni di cui oltre la metà ha scadenze inferiori ai sei mesi, con l’effetto di rendere le porte delle imprese sempre più girevoli. Non tutti i numeri hanno lo stesso peso e purtroppo le statistiche disponibili sono in genere carenti del valore che per questi tipi di analisi è più significativo: la percentuale delle uscite volontarie. Quale sia però il settore in cui più fioccano dimissioni e cambi di casacca è tuttavia universalmente risaputo: il commerciale.
Il fenomeno non è solo italiano. Negli Stati Uniti, dove i numeri amano monetizzarli, il mandato medio di un venditore ormai non va oltre i due anni e si calcola che superino gli 800 miliardi di dollari le spese extra budget che il sistema produttivo si trova ad affrontare per ricercare i sostituti, allettarli con incentivi (che poi fanno lievitare i livelli retributivi della generalità della squadra) e infine addestrarli e rodarli.
Lo scorso anno una ricerca effettuata da quattro docenti della Georgia State University ha evidenziato che ad andarsene magari non sono i migliori venditori, che per lo più le loro gratificazioni comunque le trovano, ma quasi mai sono i peggiori, i meno produttivi, consci che per loro non sarebbe affatto facile ricollocarsi, specie se hanno già fallito qualche tentativo di riuscirci. Il turnover svuota insomma soprattutto la zona di mezzo, che è il serbatoio dei profili più promettenti, quelli su cui in prospettiva varrebbe più la pena di scommettere e di investire. Oltretutto nella maggioranza dei casi si tratta di Millennial che hanno una propensione alla mobilità notevolmente più spiccata rispetto alle generazioni precedenti.
Fatto sta che, quando il turnover diventa patologico, succede che non conta più se chi resta ha prestazioni scadenti. Conta solo che resti. Anche se è zavorra.
Quando finisce un amore
Il comune denominatore di qualsiasi separazione è che avviene per l’insoddisfazione di uno dei due partner. L’insoddisfazione ha una lenta maturazione, si manifesta con dei sintomi sempre più evidenti, ma purtroppo c’è chi non sa o non vuole coglierli.
Professionalmente mi è capitato di essere chiamata per occuparmi della ricerca e della selezione di venditori da un’azienda di servizi del Piemonte: non si capacitava del perché dai candidati convocati per un colloquio continuasse a ricevere rifiuti in serie. Saltava agli occhi che il tipo di offerta non era assolutamente attrattivo: prevedeva solo provvigioni sui primi ordini; poi i clienti acquisiti sarebbero stati gestiti direttamente dalla casa madre. Aziende alle quali è del tutto estraneo il concetto di value proposition non costituiscono peraltro una rarità: sono in mano a imprenditori persuasi che i dipendenti, comunque li trattino, per il solo fatto di avere un lavoro e ricevere un compenso, debbano dimostrare gratitudine nei loro confronti.
Quando in un rapporto fra due coniugi lo stato di malessere arriva al punto di rottura, in genere ci scappa qualche tentativo di salvare il matrimonio. I rimedi tardivi sono di dubbia efficacia. Da uno studio di un paio di anni fa commissionato da una delle società del gruppo Gartner, è emerso che non si può mai considerare definitiva la scelta di chi rinuncia a cambiare aria solo perché si è lasciato convincere da una controfferta del datore di lavoro per trattenerlo. Nel 50% dei casi se ne va entro i successivi dodici mesi.
TURNOVER 120%: UN CASO REALE
Le cause di un malessere talvolta non sono di facile individuazione, anzi possono essere perfino inimmaginabili. A metà degli anni ’90 la Lanier, uno dei colossi nel campo della vendita e del noleggio delle macchine da ufficio, si trovò a fare i conti con un tasso di turnover nella sua rete vendita del 120%: i flussi in uscita erano maggiori di quelli in entrata, con vuoti negli organici che si dilatavano anziché ridursi. Cos’è che deprimeva i venditori? Andando a fondo, si scoprì con sorpresa che tutto dipendeva dal sovraccarico di modulistica da riempire a ogni singola operazione e dai continui rimpalli che ne seguivano con la sede centrale, per via di dati errati o mancanti. Bastò snellire le procedure per contenere, nel giro di un anno, il turnover al 50%.
Situazioni non dissimili, cioè con tassi di turnover che sfondano il muro del 100%, sono quasi la regola per le agenzie che operano attualmente in campo assicurativo, dove sembra valere ancora il principio “sink o swim”, ovvero “affonda o nuota”, in auge in America a fine Ottocento. Sappiamo tutti quanto sia complicato formare un giovane e che non è sufficiente cavarsela con una fase, più o meno lunga, di indottrinamento. Va affiancato, guidato, incoraggiato, assistito nelle difficoltà: se non lo si fa, invariabilmente affonda.
Ho visto cose che voi umani…
Nella mia esperienza di recruiter ho visto un’infinità di esempi opposti. Mi viene in mente un’azienda di arredamento delle Marche dove i venditori mediamente restano tre o quattro anni, cioè finché non hanno realizzato che le prospettive di crescita millantate al momento dell’assunzione sono inesistenti.
Chi conosce le dinamiche di gruppo sa che certi trend sono pressoché inarrestabili: basta che in due o tre abbandonino perché anche gli altri trovino la spinta a farlo.
Potrei citare invece un’azienda bergamasca, che opera nel settore food, la quale ha tassi di stabilità invidiabili e una rete vendita che non conosce defezioni. I fattori aggreganti sono l’eccellente rapporto che si è instaurato fra i venditori e il direttore commerciale, i percorsi di sviluppo e la possibilità di crescenti guadagni.
Cosa vale davvero
Nel pacchetto value proposition il fattore che più fa la differenza è l’ambiente di lavoro, che è quello dove gli scarti sono più sensibili o perfino abissali. Retribuzioni e benefit, tranne sporadiche eccezioni, a grandi linee si pareggiano. Si cambia per star meglio e solo a determinate condizioni per guadagnare di più.
LESSON LEARNED
Riguardo ai tipi di aziende, in appendice a Scegli chi ti aiuta – un libro scritto a quattro mani con Flavio Cabrini, collega e collaboratore storico di questo magazine – pensammo di inserire una tavola che definimmo una mappa dinamica. Identificava schematicamente sei modelli di azienda, classificati secondo una scala che partendo dal basso si articolava con questa successione: rassegnata, diffidente, autoritaria, formale, relazionale, emozionale. Perché dinamica? Perché le scale si possono scendere o salire. E i connotati di un’azienda possono cambiare nel tempo.
Per rendere l’idea dello scarto che può esserci fra ambienti di lavoro, credo possano essere significative le convinzioni che nella tavola venivano indicate tipiche degli ipotetici imprenditori alla guida di aziende ai due estremi: a “Le persone lavorano solo per i soldi, appena possono se ne approfittano” faceva da contraltare “Il capitale umano è la vera ricchezza”.
Non c’è da sorprendersi se lo stesso scarto, quando ci si imbatte in concezioni così agli antipodi, si ritrovi sul turnover del personale.