SE LA PUBBLICITÀ INGANNA
INFORMAZIONI INESATTE O IN PARTE OCCULTATE , UN MARCHIO DI QUALITÀ NON AUTORIZZATO O UN PRODOTTO TANTO SIMILE A QUELLO DELLA CONCORRENZA DA CREARE CONFUSIONE: COSÌ LA PROMOZIONE AZIENDALE DIVENTA DANNOSA PER IL CONSUMATORE
Di recente mi ha contattato un cliente in merito all’acquisto di un appartamento. Prima di chiudere la trattativa, mi racconta, venditore e impresa costruttrice lo informano che l’edificio è certificato Casa Clima (Klima Haus di Bolzano). Le stesse brochure riportano il marchio registrato di Klima Haus Casa Clima. Il cliente, allora, richiede la certificazione attestante l’appartenenza dell’immobile alla categoria energetica prevista. Nonostante i solleciti, nulla è mai pervenuto. L’edificio, infatti, segue criteri distanti da quelli relativi alla certificazione. È chiaro che si tratta di pubblicità ingannevole.
Definizione
Il Codice del consumo definisce la pubblicità ingannevole come “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea a indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge, e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico, ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente” (vedi anche decreto legislativo 146/2007). È un atto contrario alla correttezza professionale.
Un danno per il consumatore
Il consumatore potrebbe venire danneggiato perché la pubblicità:
- contiene informazioni non rispondenti al vero;
- è di fatto corretta, ma in qualsiasi modo (anche nella sua presentazione complessiva) induce o è idonea a indurre il consumatore a prendere una decisione che non avrebbe altrimenti preso;
- omette o presenta in modo incomprensibile, ambiguo o non tempestivo informazioni rilevanti.
Esempi pratici
• Si esibisce un marchio di fiducia, di qualità o un marchio equivalente senza avere ottenuto la necessaria autorizzazione (come nel caso che ho descritto sopra);
• si afferma, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati da un organismo pubblico o privato, o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, accettazione o approvazione ricevuta;
• viene promosso un prodotto simile a quello fabbricato da un altro produttore così da fuorviare il consumatore.
Un’altra legge di riferimento è il Codice dell’autodisciplina pubblicitaria italiana (Cap), accettato dalla quasi totalità degli operatori pubblicitari italiani e dai loro clienti. All’art. 2 prevede che “la pubblicità deve evitare ogni dichiarazione o rappresentazione che sia tale da indurre in errore i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni palesemente non iperboliche”.
Chi vigila sulle aziende
L’organo che interviene contro le violazioni al Codice di consumo è l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust).
Per il Codice dell’autodisciplina la competenza è invece del Comitato di controllo e del Giurì, che possono essere interpellati da chiunque vi abbia interesse, e che decidono in tempi rapidissimi (in venti giorni il Giurì, che ha il potere di ordinare la cessazione della campagna pubblicitaria). Contro le sue decisioni non è previsto appello.
In caso di pendenza della controversia di fronte all’Antitrust, ogni interessato può chiedere all’Autorità stessa la sospensione del procedimento in attesa che si pronunci anche il Giurì (art. 27 del Codice di consumo). L’Autorità garante può disporre la sospensione della campagna per un periodo non superiore ai trenta giorni.