Selezione


Redazione V+ Redazione V+

Dal volume N° 54

Lavoro, chi seleziona chi?

 

 

LE AZIENDE NON OFFRONO, I CANDIDATI NON CI SONO: COSA SUCCEDE?

 

In tempi in cui i politici danno ai giornalisti della “puttana” e accusano le agenzie del lavoro di fare del caporalato, essere uno specialista delle risorse umane che scrive di ricerca dell’impiego mi fa sentire vagamente fuori legge. A maggior ragione perché i dati su cui basare le rispettive analisi sono contraddittori e si prestano, come tutti i numeri, a essere manipolati, nel migliore dei casi, o a manipolare, nel caso peggiore.

Tecnicamente, in Italia il tasso di disoccupazione è stabile e tende persino a diminuire; il numero di giovani non impiegati ma che neppure studiano (i cosiddetti Neet) si sta abbassando (sebbene con grandi differenze tra nord e sud del Paese). È stabile anche la percentuale delle persone non occupate (quelle cioè che non hanno un’attività retributiva ma che non cercano un lavoro, o per scelta o perché hanno perso il diritto alla disoccupazione).

Nonostante ciò, le aziende stanno creando poche opportunità di lavoro, e anzi: il numero di nuovi impieghi resi disponibili mensilmente è in rosso come non mai da 40 anni a questa parte, benché, a uno sguardo critico, non si possa parlare di una vera sorpresa. Infatti, l’analisi dei dati Istat sull’occupazione, quando delimitati alla durata dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, presenta qualche sorpresa: sono essenzialmente gli esecutivi di centro-sinistra a creare lavoro. E parlo di sorpresa perché si tende a pensare che socialità ed economia non vadano a braccetto, neanche in una repubblica “fondata sul lavoro”.

O forse è proprio questo il trucco? Scaricare sui datori di lavoro i costi della creazione di impiego? Fatto sta che – e su questo sono tutti d’accordo – avere troppe persone senza reddito non è salutare per nessuno, né per lo Stato, né per le aziende né, chiaramente, per le famiglie colpite da questo fenomeno.

TROPPA DOMANDA E POCA OFFERTA?

Se poi trasformiamo le percentuali in persone, stiamo parlando di 3 milioni di uomini e donne che sono alla ricerca di un impiego. Di fronte a cifre di questo tipo è facile cadere nella trappola della semplificazione: in Italia non si trova un lavoro perché troppi cercano e i posti disponibili, invece, sono troppo pochi. Si parla di asimmetria della domanda e dell’offerta.
Il passo seguente è altrettanto legittimo: pensare che le aziende siano tentate di approfittarne, abbassando progressivamente i livelli retributivi, peggiorando gli inquadramenti contrattuali e, in generale, mostrando poca considerazione per le candidate e i candidati. E qui per “lavoro”, si intende “lavoro dignitoso”.

Per rendersi conto di come in particolare quest’ultimo punto si sia trasformato in un problema reale e tangibile, basta fare un giro veloce su LinkedIn e leggere i post con i racconti di esperienze (a volte incredibili) di persone ridicolizzate, maltrattate, dimenticate, offese o umiliate nel corso del processo di selezione.
Questo ha portato alla costruzione, da entrambe le parti, di barriere fatte di pregiudizi: i candidati pensano che i recruiter siano tutte persone orribili e i recruiter pensano che i candidati siano tutti fuori dal mondo, perché non capiscono quanto sia complesso gestire delle selezioni con migliaia di persone dove, alla fine, ne puoi scegliere sola una.

CAMBIARE PUNTO DI VISTA

Tuttavia, come tutti i problemi legati alla società, anche questo non ha soluzioni semplici e, soprattutto, non ha cause univoche. C’è una stratificazione di ragioni complesse che creano un clima sfavorevole alla ricerca del lavoro e, quindi, allo sviluppo dell’economia.

Uno di questi motivi è un altro tipo di asimmetria, quella informativa, che troviamo tra chi cerca lavoro e chi lo offre. Sembra un concetto ostico ma è più semplice spiegarlo che pronunciarlo: significa che io so delle cose che tu non sai, e questo complica la nostra relazione al punto da renderla persino tossica.

La difficoltà, per tutti noi, sta nel cambiare il nostro punto di vista tradizionale, perché non è il datore di lavoro ad avere il controllo di questo fenomeno, bensì chi cerca lavoro. Come? Semplice: in un mondo contraddistinto da domanda e offerta, il datore di lavoro domanda delle competenze, mentre i candidati le offrono.

Se facciamo lo sforzo di ribaltare quindi la visione stereotipata del disoccupato che cerca e dell’azienda che offre, ci rendiamo conto che il processo di selezione è fortemente asimmetrico a sfavore delle aziende: il datore di lavoro assume praticamente a scatola chiusa. In questo senso, l’incognita è l’effettiva produttività della persona che si sta per assumere.
Ci sono studiosi che hanno teorizzato che si potrebbe tirare una monetina – testa o croce – e il risultato sarebbe lo stesso; la letteratura scientifica in questo ambito sembra avallare la provocazione, in quanto suggerisce che, nel processo di selezione, un tasso di successo del 60% è da considerarsi positivo. Quindi poco più di un’assunzione su due: tanto vale risparmiare tempo e soldi e fare subito testa o croce.

È probabilmente per questo motivo che molte aziende hanno tendenza a preferire le promozioni interne: è un sistema per abbassare in modo significativo la paura di sbagliare profilo. Del genere: questo già lo conosciamo, non può andare peggio di così (ma, detto per inciso, la mia esperienza è che le persone tendono comunque a sorprendere, sia in bene che in male).

Al contrario, le persone che cercano lavoro hanno accesso a tutta una serie di informazioni pubbliche per farsi un’idea di che tipo di azienda si tratta: dalle recensioni dei clienti a quelle di ex collaboratori su Glassdoor, i valori e la storia sul sito internet e, a volte, persino delle lunghe spiegazioni su come affrontare il percorso di selezione presso di loro (nel caso delle grandi aziende).

ATTENZIONE A TITOLI E CV “RUMOROSI”

Troppa informazione di bassa qualità, ovvero curriculum gonfiati, fotografie photoshoppate e imbellimenti vari, creano rumore in un mondo dove l’informazione è già asimmetrica, perché il datore di lavoro non può predire a priori le prestazioni reali di un candidato.
Essi possono solo immaginare che, in un campione così vasto (e rumoroso), ci siano persone valide e persone meno valide, ma non hanno i mezzi per distinguerli (o non se li danno, ma questa è un’altra questione, essenzialmente di risorse).

In quest’ottica, il mio consiglio è sempre lo stesso: semplificate le lettere, accorciate i curriculum e ridimensionate l’arte oratoria. Perché? Perché una inflazione di titoli esotici e di mansioni fuffose crea quel risultato che in comunicazione è definito “rumore”.
E la conseguenza di questo “rumore” è drammatica e, in qualche modo, inaspettata: i salari e le condizioni di lavoro (ad esempio l’inquadramento contrattuale) tenderanno ad abbassarsi per tutti, perché consisteranno in una media di quello che il datore di lavoro è disposto a offrire per assicurarsi il migliore e quello che ritiene essere il danno minore nel caso in cui sbagliasse l’assunzione.

In un mondo del lavoro simmetrico, ognuno verrebbe pagato per ciò che vale. In quest’ottica, non è tanto la domanda troppo elevata che fa abbassare salari e qualità, è piuttosto il fatto che nel campione molto ampio di offerte (di competenze), ci siano troppe incognite rispetto alla qualità.


LA SELEZIONE AVVERSA

Questa situazione è legata a doppia mandata al fenomeno che in economia è conosciuto come “selezione avversa”. Ha origine in campo assicurativo, ma ha trovato applicazione in vari ambiti, in situazioni nelle quali alcune modifiche nei rapporti tra due parti spingono una delle due a rinunciare al rapporto con l'altra, lasciando il posto a soggetti che presentano in misura minore la caratteristica preferita dall'altra parte.
Nel caso specifico: si parte dall’idea che chi è valido è occupato. Questo induce il datore di lavoro a pensare che chi è disoccupato accetterà condizioni peggiori. È sfruttamento? Anche; ma è soprattutto pagare (meno) per un valore (minore) percepito; questo porterà le persone qualificate e disoccupate a preferire un altro datore di lavoro (i famosi candidati che non accettano le offerte) e quindi il datore di lavoro con condizioni peggiori assumerà una persona meno qualificata, o più junior, che, paradossalmente, confermerà che il salario “giusto” è quello al ribasso. Infatti non si può pretendere da uno stagista neo-laureato di avere le competenze di una persona che l’azienda vorrebbe ma che pensa di non trovare. E, purtroppo, si vede.


L’IMPORTANZA DELLA PROFESSIONALITÀ

Una terza dimensione riguarda quella che chiamerei l’asimmetria cognitiva che, in qualche maniera, è figlia delle prime due.
Anche nei ruoli di recruiter, si tende ad assumere sempre più persone senza esperienza a condizioni salariali fuori mercato (per lo meno rispetto al mercato che dovrebbe esserci e che continua ad esserci in altri Paesi europei). Il risultato è che queste persone con poca esperienza tendono a non conoscere bene i ruoli di cui si occupano. Ecco che, nel caso di una selezione in ambito sales, le richieste più frequenti riguardano “agenti veramente capaci” oppure “brillanti” o ancora “con un portfolio in grado di sviluppare fatturato”. Come se bastasse.
Il resto dell’iceberg rimane invece insondato: l’azienda ha definito una strategia commerciale? Il suo modello di vendita ha dato risultati? Si è pensato a come inserire correttamente gli agenti neo-assunti nella propria realtà di vendita? E infine: c’è qualcuno in grado di motivare queste persone affinché portino i risultati sperati?

ROMPERE IL CIRCOLO VIZIOSO

È chiaro che senza aver verificato queste premesse e anzi, senza neanche avere l’idea che queste premesse possano esistere, i candidati proposti ai datori di lavoro non saranno adeguati, sia da una parte che dall’altra. E il processo ripartirà da zero e si autoalimenterà di frustrazione, come un gatto che si morde la coda.
Per questo motivo è importante che tutte le parti coinvolte, sia da una parte che dall’altra, prendano coscienza di questi meccanismi di asimmetria e lavorino insieme per superarli. In questo modo, si arriverà a disinnescare l’aumento dei disoccupati e la diminuzione dei posti di lavoro dignitosi.
Costerà di più? Sì.
E meglio così: altrimenti, alla fine, non resterà più nessuno nel ceto medio italiano in grado di acquistare quegli stessi prodotti, portando le aziende a fare bancarotta.