Interviste


Alessandro  Zaltron Alessandro Zaltron

Dal volume N° 2

Mario Silvano - Cambia il modo di vendere, ma deve cambiare anche il modo di dirigere i venditori.


«è l’attività di relazione, il rapportarsi con gli altri, a rendere grandi i venditori». «le lacune dei venditori derivano dai direttori vendite che guardano al business anziché guidare le persone». «l’incontro con rita levi montalcini mi ha fatto cambiare metodo di lavoro. a 72 anni...»

Mario Silvano non ha bisogno di presentazioni perché è il più autorevole formatore italiano. Da 50 anni. Per lui parlano una mole di libri, corsi, persone che lo considerano il proprio mentore di vendita e di… vita. Gli abbiamo chiesto un’intervista, ci ha regalato una serie di fulminanti osservazioni e la lucida analisi del percorso verso cui dovrebbe indirizzarsi la vendita e di come poter aiutare i venditori in una fase di spaesamento come la presente.

Dottor Silvano, in tempi di difficoltà economico-finanziarie, si può dire che la ricetta anticrisi passa per la vendita?

«Che altro ci può essere per superar la crisi, se non aumentare le vendite? Abbassare i prezzi? Suicida! Aumentare le vendite coi clienti abituali? È quello che hanno fatto i venditori negli ultimi due anni, sentendosi continuamente rinviare, “il mese prossimo”, “dopo le feste”, “passata l’estate”. Una volta vigeva l’equazione numero visite = volume vendite; oggi, se aumenti il numero delle visite andando dagli stessi clienti, non migliori la situazione. L’unica possibilità di accrescere la linfa vitale delle aziende è acquisire un nuovo cliente. Certo che è difficile, occorre una metodologia, un atteggiamento mentale, una visione che genera un comportamento positivo. Ricercare non vuol dire tornare da clienti già visitati per dire le stesse cose: bisogna fare più visite per acquisire più clienti. E come fa il venditore, dopo anni di domanda superiore all’offerta? La vera differenza fra noi e gli Stati Uniti della crisi del ‘29 è che loro si sono trovati giacenze che hanno dovuto ingegnarsi a smaltire; noi, al contrario, non abbiamo alcuna giacenza, avendo prodotto in base al venduto. Questo ha creato abitudini, eccessiva facilità. Una volta il venditore visitava il cliente e si sentiva dire: “Quando mi mandi la merce che ti ho ordinato?”. Oggi il cliente dice: “Spiacente, ma non faccio alcun ordine”».

Perché cambia la vendita?

«Era facile vendere, finita la guerra, perché la domanda era superiore all’offerta. Le cose non stanno più così, e scenari nuovi richiedono risposte diverse. Tra i pochi che l’hanno capito c’è il mondo del porta a porta, dove le difficoltà a vendere hanno acuito la metodologia e la formazione. La più grande scuola di formazione è stata l’Enciclopedia britannica. Altrove vige la “legge delle case chiuse”. La maitresse, quando vedeva il permanere sul divano, anziché il trasferimento in camera da letto, incitava: “basta fare flanella”. Il venditore di automobili è un flanellista, aspetta che qualcuno entri a dirgli: “Voglio un’automobile”. In banca lo sportellista si limita a rispondere alle domande del cliente, non esiste vendita creativa. Finché la domanda era forte, era facile vendere. Di fronte a questa crisi, cambia il modo di vendere ma anche di dirigere i venditori, sennò chiediamo al venditore di risolvere la crisi. Ho il dente avvelenato verso il management. Il marketing ha portato a vedere i numeri fino al sesto decimale, ma non a considerare l’attività base del venditore, la relazione interpersonale. Che non è miracolistica, ma poggia su basi scientifiche e presuppone un metodo».

Che dire oggi al venditore?

«Che deve visitare clienti, noti o non noti, con una strategia nuova. Che è chiamato ad aggiungere al volume di vendita dei clienti abituali un nuovo cliente acquisito grazie a un approccio diverso dal solito. La vera crisi è di metodologia di approccio. Si usano gli stessi argomenti di prima, senza considerare che la situazione è cambiata. Basta vedere un’azione di vendita: nella maggior parte dei casi, il venditore, appena esauriti pochi convenevoli, tende subito a parlare del proprio prodotto. Questo poteva andar bene quando il venditore passava dal cliente a ritirare il foglietto con gli ordinativi e non doveva fare nessuna fatica. Il venditore deve parlare del cliente per almeno due terzi della visita, non di sé e dei propri prodotti».

Che cosa consiglierebbe a una persona che si accinge a vendere per la prima volta?

«Innanzitutto gli augurerei di incontrare un management aziendale che non sia ossessivamente centrato sulle cifre da totalizzare, altri- menti è in partenza votato a fallire. Secondo: riconoscere le attitudini, le capacità e gli atteggiamenti necessari per questa professione; la maggior parte degli aspiranti venditori, che vanno alla ricerca di un posto di lavoro, se lo vedono offrire facilmente per la miopia delle aziende: le aziende pensano che, dando delle provvigioni, sostengono un costo variabile. Quindi mandano la gente allo sbaraglio. L’azienda non si impegna, perché tanto non corre rischi. Poi se l’incaricato non vende, peggio per lui. La miopia dei manager porta a cercare un venditore già introdotto e fa bocciare il giovane. Pensano così di risparmiare sull’addestramento iniziale, e dimenticano che questo dare per scontato porta con sé, nel venditore rodato, pregiudizi, timore di cambiare, abitudine e routine. Il venditore che inizia dovrebbe leggere tanto, a partire dalla rivista Vendere di più, per diventare dapprima consapevole di cosa comporta questa professione e capire poi quali sono le attitudini richieste al venditore. Gli consiglio inoltre di accettare per tre mesi, potendo resistere finanziariamente, qualunque attività che comporti un’esperienza di vendita, sia pure con l’intento di abbandonarla successivamente. Non guadagnerà molto, ma la sua migliore remunerazione sarà l’esperienza. Invece molti giovani selezionano troppo le proposte esistenti sul mercato. Porta a porta? No! Assicurazioni? Meno che meno! Invece è proprio lavorando lì che si impara la vendita creativa. Il venditore bravo utilizza la sede cerebrale della fantasia. Ecco perché molti venditori con scarsa cultura sono diventati grandi: è l’attività di relazione, di rapportarsi con gli altri, a renderli grandi».

In base alla sua esperienza, è vero che chiunque, adeguatamente preparato, può diventare un venditore? O ci sono persone “negate”?

«Il Gruppo editoriale Fabbri ha consegnato un premio qualche tempo fa al suo miglior venditore di Cuneo, che è sordomuto. Io sono andato a vederlo in azione, vendeva un’enciclopedia e sfogliava davanti al cliente le pagine sul mare e ogni tanto allargava le braccia per dire “Che bello!”. Ho notato che guardava l’occhio del cliente e, appena lui mostrava interesse, sottolineava quello che al cliente piaceva. È stata la dimostrazione che bisogna essere baciati da Dio per fare il venditore. Questa persona ha scoperto, grazie alla sua minorità fisica, che non avendo le parole non gli restava che guardare gli occhi del cliente. È una tecnica che ho riscontrato nei suk arabi: pur non parlando la tua lingua, i venditori tirano indietro l’anello che guardi con avidità, per aumentare il desiderio di possederlo. Tutti possono diventare venditori, certo che hanno bisogno di qualcuno che li aiuti ad aiutarsi da soli. E molte volte i capi area non hanno la capacità di aiutare gli altri perché molti grandi venditori lo sono divenuti in modo istintivo».

Per un venditore è più importante la competenza oppure la passione?

«La competenza tecnica è acquisibile abbastanza facilmente. Un saggio di 2400 anni fa, Lao Tze, diceva che per apprendere ci vogliono tre situazioni: ascolto, osservazione-riflessione, azione. La riflessione e il fare, senza un job trainer, non fanno raggiungere il sogno di vendere. E la figura del coach manca. Sono la direzione vendite e i quadri intermedi le cause del successo o dell’insuccesso. Il vero problema è l’atteggiamento mentale della direzione vendite. Viene nominato capo il bravo venditore, colui che è nato col sistema “prendi la borsa e vai”; sei già morto in partenza, con un mercato così complesso e un cliente informato e infedele. Quindi, se il venditore fallisce, le carenze non sono in lui, ma nella guida. Il coaching è nato negli Usa proprio per trasformare un atteggiamento direttivo in una guida verso l’obiettivo. Propongo di mutare la dicitura “Direzione vendite” in “Direzione del personale di vendita”. Sembra una sciocchezza, ma vuol dire occuparsi delle persone».

Come mai, secondo lei, la vendita non è una disciplina studiata e trasmessa nelle scuole, al pari del marketing?

«A scuola preferiscono parlare delle strategie di marketing della Coca Cola a persone che andranno in una azienda che non è la Coca Cola. La vendita fa parte di una cultura popolare, e l’università non può abbassarsi a questo livello. In California ho visitato una scuola di agraria. Gli insegnanti spiegavano a ragazzi di 16 anni: “È importante che la mela che tu coltivi sia bella e buona, ma può darsi che un giorno tu debba fare una conferenza per presentare le tue mele. Perciò, oggi lezione di public speach” ».

Lei da dove trae la forza per superare le sconfitte?

«Io sono un uomo fortunato perché a 19 anni fui assunto da una multinazionale svizzero-tedesca e mi fecero tre mesi di corso. Sono passati 60 anni, e nessuno ha questa fortuna. Per cui ho cominciato a vendere con un metodo, e a ogni sconfitta avevo gli strumenti per analizzare, leccarmi le ferite e andare avanti. Ho avuto anche io momenti di sconforto. La forza mi deriva dall’aver avuto padre e madre contadini, che mi hanno insegnato le basi: “Dopo quattro anni, se non va bene col grano, si può seminare l’erba medica”. Ecco la diversificazione della produzione. Nell’epoca odierna, chi vende va incontro alla frustrazione. E, di fronte a un uomo frustrato, solo il coach – non il capo carismatico – può aiutare. Ci sono molti consulenti di coaching per i titolari, e non c’è un coach all’interno delle aziende. Vendere è un processo scientifico, un metodo di lavoro che insegna molte cose, fra cui resistere alla frustrazione. Il venditore è come un fratello per me, e vive in un mondo in cui alla sera gli dicono “Quanto hai venduto?”. Io ho spostato l’osservatorio dal venditore a chi lo dirige. Don Primo Mazzolari diceva: “Io amo molto mio fratello Giuda, quindi non lo colpevolizzo; vorrei solo sapere chi gli ha dato i 30 denari per tradire”. Si pensa che basti promuovere il venditore capace a capo venditore. Essere un ex venditore non vuol dire essere bravo nella formazione: la saggezza non è trasferibile. La rivoluzione del coach, applicata nel mondo dello sport, ha insegnato che non diventa mai un mister chi faceva molti gol. Normalmente. Solo Liedholm era un grande giocatore ed è diventato un grande leader. I più grandi allenatori non sono grandi solamente perché giocavano e facevano tanti gol. Il venditore miracoloso dotato di imperscrutabili capacità è una figura romantica dei tempi passati; vendere è un équipe, un marchio, un brand, fa parte di una squadra. E il coaching è la situazione indicata dall’America al posto di capi area e direttori vendite, quella che aiuta l’individuo a raggiungere i suoi obiettivi. Senza troppe frustrazioni».

Un incontro che le ha cambiato la vita.

«Anche io, come tutti i venditori, avevo la coda di gente che mi chiedeva di fare un corso. Questa situazione a un certo punto è finita. Come riuscire a superarla? Devo ringraziare un incontro del 2002 con una persona che mi ha fatto capire che dovevo cambiare modo di lavorare. Si chiama Rita Levi Montalcini. Era stata nominata presidente dell’enciclopedia Treccani, mi chiese di aiutarla. Avevo 72 anni, ritenevo finito il mio ciclo e che sarei andato in pensione; lei, alla luce dei suoi 93 anni, mi convinse che smettendo di lavorare sarei invecchiato precocemente, mentre avevo davanti a me un esempio vivente di lucidità mentale. Ho lavorato due anni e mezzo con lei: un periodo di formazione, ma per me. Mi diede dieci libri da leggere, alcuni antichissimi, di autori come Galileo o Krishnamurti. Al termine non ho più accettato di tenere corsi per insegnare a vendere. Sono passato dall’aula all’imparare facendolo, diventando un facilitatore di apprendimento. Un passaggio epocale. La Montalcini non si intende di marketing, ma conosce il cervello dell’uomo: “Non puoi insegnare qualcosa a qualcuno, puoi solo fargli scoprire la verità”. Adesso parto dai capi prima di passare ai venditori, perciò offro un prodotto sgradito. Dico che, se cambia il modo di vendere, deve cambiare il modo di dirigere i venditori: umanistico, non ancorato al dirigismo».

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